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    THE BLANK BOARD | INTERVISTA A FILIPPO BERTA
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    THE BLANK BOARD

    un progetto a cura di Martina Dierico, Clara Scola e Maria Zanchi

    Intervista: Martina Dierico e Clara Scola

     

    In occasione di ArtDate 2015 ogni Studio Visit sarà accompagnato da una colonna sonora. A differenza di altri artisti che hanno chiesto ad un compositore di realizzare la colonna sonora, tu hai deciso di utilizzare l’audio di una tua performance. Ce ne puoi parlare?

    Il rumore prodotto dal gesto offre tridimensionalità alla performance, rendendone la percezione più complessa. In tal senso, non è una colonna sonora d’accompagnamento, ma una naturale conseguenza libera da codici. Ho voluto distaccarmi dal concetto di musica come un rumore costruito e organizzato per condividere con gli altri un “rumore informe”.

    Quali lavori presenterai durante lo Studio Visit?

    È mia attitudine cercare con l’altro un dialogo informale e orizzontale. Di conseguenza, non ci sarà una scaletta prestabilita, ma una conversazione sviluppata in funzione alle peculiarità dell’incontro. In aggiunta, è prevista una postazione da dove poter scegliere e vedere i miei video, grazie a un menù interattivo.

    Quali sono i temi che tratti nel tuo lavoro? E che ruolo ha la performance nella tua ricerca?

    Indago le tensioni insite nell’individuo e nella società di cui fa parte, prodotte dalla fallimentare ricerca della forma perfetta o dalla paradossale coesistenza tra la necessità di disobbedire e l’auto-imposizione di codici. Queste condizioni producono disarmonie e dualismi che cerco di sintetizzare e raccontare, facendo uso dell’estetica come mezzo di comunicazione e non come un fine. Nelle mie performance l’essere umano, soggetto della mia ricerca, si auto rappresenta attraverso piccoli gesti che fanno parte dell’immaginario collettivo.

    Per te è necessario creare un rapporto particolare con le persone che partecipano alle tue azioni?

    Chi decide di partecipare conferisce un personale significato al gesto da compiere. Di conseguenza, nasce spontaneamente un rapporto esclusivo tra me e le persone invitate.
    Di forte intensità furono le relazioni che intrapresi con gli immigrati coinvolti nella performance Canzonette (2008), realizzata negli spazi pubblici di Bergamo. In questa performance gli immigrati fischiettarono una canzone popolare bergamasca e dal lato opposto della strada i cittadini si fermano attratti dalla melodia e dall’insolita situazione. In questo modo, l’immigrato e il nativo si trovarono a faccia a faccia e la distanza che nella vita sociale li separa in quel momento diventò uno spazio concreto.

    Nelle tue opere ricorrono sempre forme rigorose e geometriche, perché?

    La responsabilità dell’artista è sintetizzare in un’immagine ampie argomentazioni. Questo non significa produrre un lavoro ermetico perché la complessità va espressa semplicemente. Le forme geometriche sono di facile lettura e non lasciano scampo allo spettatore. Nel mio caso sono le persone coinvolte a generare forme geometriche, che diventano metafora visiva di una condizione di vita sociale o individuale.

    Hai una formazione da geometra ed in passato hai lavorato in uno studio, come ti sei avvicinato al mondo dell’arte?

    Non ho una formazione accademica tradizionale e non conoscevo l’arte contemporanea. Rimasi colpito dalla libertà d’espressione raggiunta in questo campo artistico. A quel punto, decisi di fare uso di queste forme estetiche per comunicare un’urgenza, condivisibile o rinnegabile. A riguardo, bisogna essere coscienti che un artista di ricerca non otterrà mai solo accondiscendenze, proprio perché sta cercando di comunicare qualcosa. I panni del “corretto politicamente” stanno stretti a chi fa ricerca.

    Quando hai pensato di organizzare il brunch che ci sarà durante il tuo Studio Visit ti sei collegato alla tua prima performance per ArtDate dove avevi già creato una situazione in cui si creava una relazione con il cibo?

    Dovendo associare allo Studio Visit una traccia sonora, ho pensato al rumore prodotto dal gruppo di uomini coinvolti nella performance Concerto per solisti (2012). Essi erano seduti al tavolo di una mensa e ognuno beveva del brodo enfatizzando ogni sorso succhiando con forza dal cucchiaio, così da emettere un rumore invadente. In questo modo, il tentativo del singolo di distinguersi da una collettività uniformante (lo stesso piatto, lo stesso tavolo, la stessa sedia…) si rivelò fallimentare in una parodistica competizione in cui tutti cercarono di sovrastarsi. Questa manifestazione del proprio Io durante l’atto di nutrirsi, sarà ossessivamente presente durante il brunch per mezzo di casse amplificate dislocate nello spazio.

     

    THE BLANK BOARD | INTERVISTA A ANNAROSA VALSECCHI
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    un progetto a cura di Martina Dierico, Clara Scola e Maria Zanchi

    Intervista: Martina Dierico e Clara Scola

    Photos: Maria Zanchi

    In occasione di ArtDate 2015 sappiamo che Giuseppe Dalla Bona comporrà la colonna sonora che accompagnerà il suo studio visit. Quale connessione ha con il suo lavoro?

    C’è una connessione diretta, concettualmente, fra il mio lavoro che nasce dalla percezione del suono e l’installazione sonora. Questa, anzi, realizza qualcosa che fin dall’inizio era quasi implicito. Tuttavia “colonna sonora” rimanda a sincronie e conseguenzialità narrative – parlo di quelle che siamo abituati ad attenderci dal cinema – alle quali questa installazione non si conforma. La temporalizzazione delle immagini sonore e l’evidenza fonica della loro fisicità non intendono suggerire la continuità di un processo evolutivo, di un qualsiasi flusso, né intendono riprodurre il mondo dei suoni che ho scelto per il mio lavoro. Intendono piuttosto connettersi con la discontinuità e la perversione del tempo cronologico indotti dall’ingresso della durata che si costituiscono, con le loro peripezie, nell’atto del vedere.

    In sintesi, intorno a cosa ruota la sua ricerca artistica?

    Il mio lavoro ruota intorno al concetto di traduzione. E’ il trasferimento di senso da una forma all’altra e della sua riformulazione. E’ una trasmutazione nella forma pittorica e segnica di contenuti, di materie narrative, di emozioni. Processi che si producono all’interno di una ricerca tesa a indagare un codice ignoto come quello della percezione riproducendo il messaggio attraverso immagini, segni visivamente leggibili. Le immagini, come esito figurativo, hanno fatto parte di un lungo periodo della mia ricerca, mentre in quest’ultima fase, pur senza abbandonarle, ho lasciato corso al desiderio che il mio segno, già per sé desiderante, fosse libero. Questo ha approfondito e rischiarato la mia lettura del codice percettivo, consentendomi di stabilire un circuito percezione/tela (prima), carta (ora). La sospensione della produzione figurativa e lo sviluppo di quella segnica che scaturisce dal rapporto col suono ha prodotto un cambiamento nel processo di traduzione. La percezione si trova spostata in uno spazio vuoto, rimane sospesa dentro un’incognita permanente fino a quando il segno le dà corpo, affermando qualcos’altro. La forma nella quale il senso veniva trasferito ora non può che essere astratta.

    Il suo lavoro ha molto a che fare con l’idea di composizione. Ci può descrivere l’importanza della musica nel suo percorso artistico?

    Nel mio lavoro ci sono in effetti analogie con la composizione musicale: anch’esso tende a creare un organismo fatto di più unità autonome che trovano modi di convivenza. Uno sguardo fugace può far assomigliare una mia opera a una partitura. Il lavoro si è sempre svolto, e si svolge, accanto alla musica, con la quale ho una consuetudine che risale alla mia infanzia. E’ il suono puro ad attrarmi, il suono dei corpi, quello che non riconosce soglie oltre le quali per un certo ascolto sociale diventerebbe rumore. Sono caratteri di cui trovo i tratti più attraenti nella musica contemporanea di ricerca, accademica e non, nella musica d’improvvisazione e in molte musiche etniche, specialmente quelle dell’Africa. C’è musica di Berio, ad esempio, o di Stockhausen, come gli involucri sonori che compongono “Zodiac”, che si è impressa con particolare intensità nell’ascolto dal quale sono nati alcuni dei miei ultimi lavori.
    Io credo che il suono abbia una prerogativa unica fra tutti i fenomeni sperimentabili sensorialmente: quella di poter simultaneamente abitare porzioni di presente e di passato. Racchiude in sé un processo temporale; è composto di elementi successivi nel tempo la cui percezione è, però, simultanea. Dinamiche percettive il cui codice è, appunto, in gran parte ignoto, che costituiscono però il lato misterioso del suono che ha indirizzato la mia passione verso la sua elezione a soggetto della mia ricerca.
    Mi ha fatto intravedere la possibilità di inoltrarmi in un lavoro mentale e fisico veramente esplorativo, diverso e incognito, ma che sentivo confacente all’irrequietezza del mio segno. Di immaginare altri mondi espressivi in cui avrei potuto spingerlo. Insomma, un lavoro d’interpretazione della percezione del suono, del transito verso la sua riformulazione segnica in una scrittura.

    Un aspetto che contraddistingue la sua pratica artistica è l’interesse diretto alla scrittura, scrittura che si traduce poi in rappresentazione simbolica. E’ così?

    Io vorrei poter rappresentare attraverso il linguaggio scritto. Riuscire a ritrarre attraverso le descrizioni minuziose raggiungibili con le parole. A volte mi sono perfino chiesta se una sorta di frustrazione/assenza per non aver scelto di calarmi in quel linguaggio avesse in qualche modo marcato il mio lavoro. Ma l’attingimento di una “scrittura” come simbolizzazione di affezioni è, comunque, il termine col quale credo di rendere, ieri come oggi, il senso più profondo della mia ricerca. Un po’ paradossalmente quella narratività che avrei voluto esprimere con le parole ha preso nel mio lavoro la via di traduzioni simboliche di segno, almeno nella strategia mimetica, diverso, in tensione verso la
    produzione di qualcosa di unitario e indiviso attraverso il massimo di condensazione espressiva. Fanno capo a una concezione del simbolo come immagine del pensiero nascosto collocata nell’istantaneo. Come un lampo che illumina e viene subito inghiottito dal buio. L’opposto della serie di momenti in progressione di una rappresentazione allegorica.
    L’alfabeto visivo/sonoro interamente soggettivo, enigmatico, assoggettabile a permutazioni infinite al quale sono pervenuta è il prodotto di quella tensione verso una sintesi. E’ composto di segni/significanti ai quali accordo sempre più libertà di muoversi verso il significato. Assecondando in fondo nient’altro che la loro natura, di muoversi sempre verso una “scrittura” in cui l’affezione originaria, qui colta dal suono, riesce ancora a vibrare.

    La ricerca che precede la composizione dell’opera è in qualche modo performativa?

    La ricerca è decisamente performativa. Si attua nell’atto dell’ascolto che coincide a sua volta con un’azione il cui raggio si estende fino all’impressione di un segno/significante sulla superficie. Un’azione che con il gesto tenta di cogliere come ricordi nel presente accensioni di segni precipitati nel passato. Il lavoro si sviluppa in presenza e in correlazione con una continua segmentazione del tempo, una sua incapsulazione seriale. La tensione del gesto rapisce il suono e ne traduce i caratteri fisici e la protensione in tocchi segnici sonori.

    Ci può parlare dei lavori che esporrà in occasione di ArtDate?

    La presentazione vuole privilegiare il rapporto diretto con la carta. Le opere non sono costrette in cornici, ma appese a un supporto a raggiera che ne permette la visione/lettura attraverso il loro voltarsi come pagine. Sono carte di diversa grammatura, di grandi e medie dimensioni; lavori realizzati a grafite e tecnica mista. Fanno parte della mia produzione più recente, quella che nasce, appunto, dal rapporto con il suono. In particolare, fanno parte di una serie intitolata “Un tempo”. La ricerca era iniziata con una scrittura che mi sembrava riuscire a incontrare ed elaborare su piccole superfici tutta la densità degli eventi musicali.. Successivamente ho dato corso a un processo di diluizione progressiva, con impiego di superfici aumentate, per cogliere una quantità più elevata di eventi e scrivere traduzioni i cui percorsi, facendo quasi vibrare le carte, si disegnavano ramificandosi in tutte le direzioni. Fino a rendere necessaria la grande dimensione (2,40×1,30): uno spazio che poteva accogliere tutti quei movimenti, rendere leggibile l’energia di cui sono vettori e l’intenzionalità che li dirige. Rappresentare, soprattutto, il confronto che si dispiega in un incessante corpo a corpo, ineludibile nel mio lavoro, con il tempo. Quel tempo che viene dato come percezione dal suono. Anzi, forse solo dal suono. Un tempo.

    Sappiamo che oltre ai lavori su carta ha realizzato anche un altro lavoro avvalendosi del supporto di Multimagine.
    Ci può fare qualche anticipazione?

    La sperimentazione in 3D che ho condotto con il supporto di Multimagine rappresenta il primo stadio di un work in progress. Si lega alla parte “compositiva” del mio lavoro. In particolare ad alcune modalità che sono proprie delle tecniche compositive e che concernono la sovrapposizione e la condotta delle parti. Ho ritenuto di utilizzare i lavori su piccolo formato in una rielaborazione nella quale le stesse tecniche, atte a governare progressioni di voci nello spazio in senso ineluttabilmente orizzontale, sono trasposte nel tempo per ritmare in una verticalità immobile la loro estrazione dal passato.

    The Blank Board | Intervista a Domenico Pievani
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    photo @ Maria Zanchi

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    In occasione di ARTDATE 2014,

    Domenico Pievani aprirà il suo studio

    Sabato 17 maggio, dalle 09.00 alle 11.00

    Via San Lorenzo 22, Bergamo

    THE BLANK BOARD

    Un progetto a cura di Elsa Barbieri e Maria Zanchi.

    Intervista di Elsa Barbieri

    Foto di Maria Zanchi

     

    Domenico, in occasione di ArtDate 2014 presenterà un catalogo. Mi anticipa qualcosa di più?

    Il catalogo “Le regard se fait lieu/ Lo sguardo si fa luogo” nasce come testimonianza di quattro mostre  realizzate in spazi pubblici in Belgio negli ultimi tre anni. Ci tengo molto a presentarlo qui a Bergamo perché è stato realizzato con la partecipazione di più realtà culturali importanti e attive nella città. Questi  lavori hanno rappresentato per me l’occasione di riflettere sul concetto di installazione. Purtroppo è sempre più difficile capire quando  il concetto di installazione assuma il significato generico che indica tutto e niente e quando invece assume un senso che si lega a una trasformazione dell’idea dell’arte nel concetto di forma, della storia dell’arte, della scultura… ma anche alla trasformazione del rapporto con lo spazio, nel concetto di forma… Solo in questi casi “installare” assume un senso, che per essere colto richiede di fare un passo indietro nel tempo, cercando di mantenere un minimo di contatto con quelli che sono gli “antenati”. Già il lavoro di Kurt Schwitters era un’installazione, così come  lo studio di Brancusi . Quindi abbiamo tutta una serie di indicatori che ci possono riportare a un senso vero di quello che può essere il concetto di installare.

    Non trova che oggi “installazione” sia un termine usato con molta, forse troppa facilità?

    Sì, oggi è un termine abusato. Tutto è un’installazione, installiamo qualsiasi cosa… sembra che installare si risolva semplicemente nel mettere delle cose in uno spazio.   Al contrario penso che la dimensione dell’installare  sia significativa solo quando diventa un atto fondante. Fondare un luogo significa dare un carattere allo spazio. Allora lo spazio non è più una categoria indefinita e non è nemmeno una categoria spaziale in senso geometrico ma assume una valenza più pregnante e un carattere poetico.

    È in questa direzione che spinge il suo lavoro?

    Sì. Ho iniziato sempre più a legare al concetto di installazione  il concetto di composizione e  del disporre nell’accordare. L’installare per me diventa il disporre, l’attenzione cambia completamente perché mi trovo così, inevitabilmente, nella condizione di non poter essere slegato dallo spazio in cui agisco e con cui la relazione è immediata. Non posso avere un’azione, una riflessione o un’opera che si avviluppano su sé stesse ma devo lavorare in una dimensione aperta. Se noi consideriamo l’installare in questa dinamica allora l’installazione diventa interessante e credo abbia grandi possibilità dal punto di vista del linguaggio artistico e del suo sviluppo. Percorrendo questa direzione poi si fa strada il concetto di installarsi dell’opera. L’installarsi dell’opera all’interno dello spazio significa prima di tutto che bisogna avere coscienza del fatto che lo spazio è lo spazio esistenziale dell’opera stessa. L’installarsi dell’opera dunque può diventare un fondare un luogo.

    Penso a  Passaggi attorno e attraverso (per uno sguardo libero) , per esempio. Ha fondato un luogo?

    Sì. Era il 2012 ed ero stato invitato a partecipare a un festival, Les Voies de la Liberté, che si teneva presso il Centre culturel d’Ottignies-Louvain-la-Neuve. Passaggi attorno e attraverso  era un’installazione site-specific, con una serie di porte che poteva essere letta in due modi. Dall’esterno appariva come un unicum strutturato, però anche come un percorso che potesse essere attraversato dai visitatori. Avevo pensato a questo lavoro come a una dimensione in cui si aveva continuamente la possibilità di passare da una situazione all’altra. Nel percorso c’erano dei segni che diventavano limiti e marcavano una qualità attiva del movimento e della percezione, ma anche dei diversi modi di essere all’interno dello spazio.

    Per definizione il limite è qualcosa che chiude, per lei invece sembra non essere così. Sbaglio?

    Niente affatto. Sia all’interno del mio lavoro che del mio modo di pensare, io assumo il concetto di limite come qualcosa di assolutamente positivo e dinamico. Nella mia pratica artistica il limite serve, molto spesso, a marcare un momento di transizione da uno stato di cose a un altro o da uno spazio all’altro, da un sopra a un sotto, da un esterno a un interno… È un elemento da intendersi attivamente e positivamente che segna un passaggio all’interno di uno spazio da percorrere.

    Uno spazio che lei, artista, rappresenta? O che, nel suo caso, ripresenta?

    La differenza tra rappresentazione e ripresentazione, nel mio lavoro, è fondamentale. Non sono interessato a rappresentare qualcosa, ma a ripresentare qualcosa. Ripresentare è molto diverso, è un modo per essere all’interno del processo e lasciare che il processo continui anche nella dimensione della trasformazione. Penso che sia una possibilità, all’interno del linguaggio dell’arte, che ha portato tantissima ricchezza. Non che nella rappresentazione non ci sia qualcosa di interessante anzi, c’è comunque una ricchezza così come ad esempio una riflessione sulla realtà. Solo che è una riflessione di altro tipo, che si articola nella dimensione del distacco, completamente diversa da quella del coinvolgimento, della vita, in cui si inscrive ciò che si ripresenta. Sono attento a cogliere le differenze e credo che questa sia una delle più affascinanti, aiuta a capire il mio lavoro. All’interno della dimensione delle cose dunque se  prendo una pietra e la metto in uno spazio la sto ripresentando: la decontestualizzo, la inscrivo all’interno di un nuovo contesto- c’è dunque anche una dimensione linguistica che entra in gioco- e così la ripresento, rimettendo in gioco il principio di realtà.

    Che rapporto instaura con gli spazi in cui lavora?

    Entro in contatto con lo spazio a cui mi approccio prima guardandolo, per scorgere le qualità che ha già di per sé,  poi concentrandomi sulla sua percezione. Oppure, nel caso di spazi che dispongono di un genius loci che li rende luoghi, cerco di dialogare con questi aspetti caratterizzanti. Sia che le opere siano realizzate in situ, sia che nascano in studio per prendere vita nel momento dell’installazione, quello che per me conta è che il lavoro si nutra dello spazio, del luogo… e che vibri con esso.

    Cosa fonda uno spazio?

    Naturalmente l’opera. Gli spazi possono disporsi e contenere opere, anche di differenti misure, possono diventare cavità teatrali in cui accade qualcosa, ma è l’opera a fondarli. O meglio, a rifondarli, qualificandoli come luoghi della poiesis, luoghi in cui avviene un’azione. E quell’azione non è altro che l’opera d’arte, che segna, fonda e caratterizza uno spazio accadendo al suo interno. Questo è uno degli aspetti che maggiormente mi interessa e che attraversa tanto il mio lavoro quanto le mie riflessioni.

    Come nasce questo interesse?

    Questo interesse è nato all’interno di una riflessione che riguarda anche la storia dell’arte. Mi sono formato negli anni ’70 e ho vissuto in prima persona il momento dell’uscita dal quadro, un aspetto che mi ha interessato e che tutt’ora mi interessa come possibilità. Negli stessi anni anche nel campo della scultura stava succedendo qualcosa, si procedeva verso quella frantumazione della forma che esaltava la scultura come costellazione. Ecco, io mi muovo tra la possibilità di uscire dal quadro, uno spazio delimitato e chiuso da una cornice, e la possibilità di andare oltre il concetto di forma, riuscendo così a concepire lo spazio come dimensione aperta da inscrivere in un processo di continua trasformazione.

    C’è un motore che muove questo processo di trasformazione?

    Sì, la relazione delle cose che, per me, si riconduce al concetto di composizione. Se c’è una cosa che mi ha sempre seguito, non solo come interesse, ma anche come caratteristica del mio lavoro, è proprio il formarsi dell’opera all’interno di questo concetto. Naturalmente la relazione tra le cose è un aspetto fondante nel regno della composizione. Da questo punto di vista anche lo spazio è un elemento importantissimo, che può essere usato in modi diversi.

    A quali modi si riferisce?

    Beh, possiamo avere uno spazio come contenitore, dunque lo spazio come cavità teatrale, oppure uno spazio che si trova tra una cosa e l’altra, che potremmo considerare come un intervallo di sospensione. Quest’ultimo, verso il quale va la mia attenzione, non è uno spazio che divide, frantuma, allontana o, addirittura, costringe alla percezione di due o più individualità in una dimensione separata. Per me, al contrario, lo spazio come intervallo crea infinite possibilità di relazione.

    Come è possibile?

    È possibile perché questo spazio diventa un vuoto di possibilità estremamente ricco… permette infatti che si instaurino delle relazioni in cui le cose possono mantenere la propria identità pur concorrendo alla composizione di un unicum che le contiene. Naturalmente, per il mio lavoro, il concetto di vuoto è importante al pari di tanti altri… il vuoto permette il coinvolgimento, la contaminazione, ma anche l’essere e lo stare in uno spazio.

    Essere in uno spazio chiama in causa una presenza corporea. Un altro elemento che segna la sua pratica artistica.

    È vero. Nella mia formazione rientra un’avventura legata alla ricerca nel campo delle arti performative- ho lavorato, come studente, a due progetti di ricerca diretti da Jerzy Grotowski- che si lega, nell’ambito delle arti visive, alle opere che faccio e agli elementi che uso.

    Che elementi usa?

    Gli elementi che uso nel lavoro hanno una relazione molto stretta con l’essere umano. Letti costruiti in ferro per esempio, oppure molto spesso sedie. Non li utilizzo solo per un valore estetico, ma per il rapporto con il corpo, dal punto di vista della misura e dell’azione. Oltre al fatto che la dimensione di un letto o di una sedia è commisurata al corpo umano, entrambi questi oggetti presuppongono un modo di stare nello spazio, l’uno orizzontale e l’altra intermedio. Di riflesso questi aspetti chiamano in causa il movimento, un altro elemento fondamentale che si ritrova in tante mie opere. Senza il movimento sarebbe impossibile cogliere la relazione tra il corpo e lo spazio. Una relazione che recupera le radici corporee, ancora prima di essere pensiero o immagine, e che, proprio in quanto tale, mi permette di toccare alcuni elementi che riguardano l’universale, a prescindere dalla lettura che ne facciamo noi.

    Che cosa intende per radici corporee?

    Intendo esattamente come siamo fatti. Come ci insegna la cultura cinese, noi abbiamo in realtà quattro modi di stare nello spazio: stare sdraiati, sul piano orizzontale, stare  seduti, per terra o su una sedia, che è la condizione intermedia, stare in piedi, sul piano verticale. E poi c’è un quarto modo di stare nello spazio che è quello che ci appartiene: quello di essere in movimento. Tutti questi modi sono gli elementi basilari attorno ai quali lavoro. Quindi anche quando assumo degli oggetti lo faccio scegliendo appositamente quelli che stanno all’interno di queste possibilità. Con una particolare attenzione al movimento, che è la condizione indispensabile per la percezione di tanti miei lavori.

    C’è qualcosa d’altro che lega il suo lavoro a questi oggetti?

    Sì, c’è un altro aspetto molto importante ed è il concetto di azione. I pochi oggetti che uso, sono spesso  legati a precise azioni dell’uomo all’interno di uno spazio. La cosa che faccio è quella di cogliere e fissare in una sospensione questi oggetti. Ma non all’interno dell’azione, bensì quando l’azione è già avvenuta o è in procinto di avvenire. E qui dunque torniamo a quella situazione per cui il mio lavoro funziona sempre in rapporto a due stati di cose, due spazi o due aspetti che prevedono un passaggio. Il dinamismo, il dualismo… sono condizioni che ricerco negli oggetti che uso.

    Un oggetto che ricorre, come anche lei ha detto, è la sedia. Che significato ha per lei la sedia?

    La sedia è un oggetto che mi interessa moltissimo. Innanzitutto mi incuriosisce come dimensione di passaggio dalla posizione verticale a quella orizzontale, quindi come modalità di essere nello spazio. E poi mi affascina per il rapporto con le radici corporee. La sedia infatti è un corpo dal punto di vista architettonico, ma è anche il corpo, il nostro corpo. Nella storia dell’arte, nel teatro, nella danza, se presti attenzione, vedi spesso una sedia. Questo perché la sedia è protesi ma allo stesso tempo corpo.

    Lei fa un uso particolare delle sedie. Sbaglio?

    È vero, io le appendo. Quando appendo una sedia appendo un corpo. Per me appendere ha un senso molto particolare. Significa anche sospendere e quindi ritorna quella condizione di dualità che ricerco e perseguo con il mio lavoro. Naturalmente è una questione di emozioni… la cosa curiosa è che per me la sedia è un elemento che permette di toccare tante sfumature a livello espressivo ed emozionale. La sedia può essere qualcosa di divertente, di gioioso, di ridicolo, oppure di Drammatico. E poi l’altro elemento importante, che si ritrova in molti miei lavori realizzati con delle sedie, è il concetto di presenza e assenza.

    Me ne parli Domenico, sembra interessante e significativo.

    La sedia sta sul filo sottile che separa presenza e assenza. Una sedia può evocare una presenza tramite un’assenza e, viceversa, un’assenza tramite una presenza. Quando vediamo una sedia vuota in uno spazio per esempio.. possiamo pensare a un’assenza perché la sedia è vuota ma è solo attraverso la sua presenza che cogliamo l’assenza stessa.

    Il dualismo è costante. Come definisci gli aspetti che entrano in questa reazione duale?

    Non sicuramente opposti, credo sia un termine culturalmente abitudinario. L’opposto è qualcosa di molto strano, soprattutto per come lo gestiamo all’interno della comunicazione. Pensiamo sempre agli opposti come qualcosa che si contrappone. Invece, all’interno del mio lavoro, non è questa contrapposizione ciò che mi interessa. Mi incuriosiscono di più gli opposti all’interno di una dimensione circolare, che li contiene.

    Tesi, antitesi, sintesi

    Mi hai scoperto… (ride). Nel mio lavoro cerco di mantenere sempre questo tipo di tensione. Ovviamente nella consapevolezza che si tratta di una tensione impostata sulla curiosità, sulle domande, non su risposte certe.

    Oggi però il pubblico sembra ricercare più risposte certe e spiegazioni piuttosto che esperire.

    Purtroppo è vero, forse perché ci siamo disabituati a guardare. Crediamo di guardare, ma in realtà l’oggetto del nostro sguardo non è altro che l’immagine precostituita della cosa che guardiamo. Non riusciamo più a cogliere le cose nella loro essenza, nel loro essere in un dato tempo e in un dato spazio. Oggi non si cerca più di guardare in modo consapevole l’opera che sta davanti a noi,  ma si vuole sapere immediatamente cosa voglia dire. Io però credo che sia l’opera a dover parlare per prima e non chi l’ha fatta, o chi ne fa la lettura critica. Non nego che sia possibile e anche interessante disquisire attorno alle opere, però non è possibile farlo ancora prima di averne fatto esperienza. Quando un artista costruisce un’opera ha qualcosa da dire… a quel qualcosa bisogna avvicinarsi attraverso lo sguardo, l’osservazione e l’ascolto.. altrimenti si perde una dimensione dell’esperienza, si perde la relazione con il lavoro artistico.

    Come si pone il tuo lavoro rispetto a queste tue riflessioni?

    Io non penso affatto all’opera d’arte come qualcosa di puramente istintuale anzi, sono convinto che ci sia sempre un pensiero che proceda di pari passo con il lavoro. Credo però che siano sempre le opere, in relazione alle differenti pratiche di lettura, a provocare le riflessioni. Ed è così che deve essere per non correre il rischio di avere delle opere che altro non sono se non semplici messa in forma di idee. Le idee ci sono, ci devono essere e possono anche funzionare come motore primo. Nello stesso tempo però un’opera d’arte, è un processo per cui non ci si può limitare all’idea. Un processo in cui si può penetrare tramite le idee, ma che poi deve evolvere dialetticamente, deve trasformarsi. La trasformazione non può mancare… del resto noi stessi siamo sempre coinvolti all’interno di un processo di trasformazione. Averne coscienza è fondamentale.

    Interessante

    Si, solo così l’arte diventa un’avventura… altrimenti è una noia mortale (ride).

     

     

    The Blank Board | Intervista a Marco Grimaldi
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    In occasione di ARTDATE 2014,

    Marco Grimaldi aprirà il suo studio

    Domenica 18 Maggio 2014, dalle 15.00 alle 17.00

    Via Cervino 2, Seriate

    THE BLANK BOARD

    Un progetto a cura di Elsa Barbieri e Maria Zanchi.

    Intervista di Elsa Barbieri

    Foto di Maria Zanchi

     

    Marco, quando hai deciso di diventare un pittore?

    Ho sempre saputo di volerlo fare. Ho frequentato il liceo artistico a Bergamo ma in quegli anni non avevo grandi interessi. Dopo la maturità ho deciso di allontanarmi, di spostarmi e mi sono iscritto all’Accademia di Brera. Lì, dove non mi conosceva nessuno ho iniziato a studiare e lavorare da pazzi. Mi dicevano tutti che avrei dovuto fare il pittore. Alla fine l’ho fatto, era quello che mi piaceva. Probabilmente se non avessi fatto il pittore avrei fatto un lavoro completamente diverso. Quando ho scelto l’accademia il mio unico interesse era la pittura.

    Che pittore sei?

    Sono un pittore che per formazione non ha una linea precisa, mi piace molto spaziare sulle cose. Essendomi formato negli anni ’80 non poteva che essere così. Ho iniziato l’accademia nel 1985, negli anni dell’eclettismo, della contaminazione, della deriva culturale. Queste tendenze le ho vissute, le ho sentite… e i pittori che maggiormente mi hanno influenzato hanno queste caratteristiche. Sono quegli artisti che puoi trovare nelle esposizioni figurative ma anche in quelle astratte. Non riesci a classificarli eppure hanno una continuità interiore che li rende riconoscibili tra mille. Non mi sento affatto un loro successore, per me rappresentano un punto di partenza da cui poi ho preso la mia strada.

    Che cosa mi dici di questa strada?

    Quando mi chiedono di scrivere dei miei lavori io dico sempre che l’importante per me è riuscire a unire i punti cardinali del quadro. Che cosa significa?… Non penso di certo all’unione geografica dei punti, alludo piuttosto a riuscire, con dei segni o dei colori, a unire il tutto, a dare tensione a tutti i lati: solo così il quadro prende vita e diventa anima pulsante.

    Cosa rappresenta per te il quadro?

    Per me un quadro è un quadro. Non è che non mi piaccia la pittura figurativa però ormai di fronte a qualsiasi cosa la preoccupazione maggiore è che cosa sia, che cosa rappresenti. Per me invece non è così. Di fronte a un quadro la prima cosa che si fa notare è la sua struttura architettonica, che ha già la sua valenza. La sua forma, il suo spessore sono già di per sé elementi che devono far riflettere. Il rapporto che un lavoro dovrebbe avere con lo spazio circostante determina già il fatto che quello che mi interessa è l’insieme che dà forza all’architettura del quadro. Partendo da questa struttura cerco di dare vita a uno spazio tracciando delle righe, è una delle sfide che mi smuovono maggiormente.

    Rischi, accetti le sfide.

    Si. Non ho alcun problema a dipingere e disegnare, sono trent’anni ormai che lo faccio. Cerco sempre di farlo con la testa libera però. Perché il bello del dipingere è trovarsi alla fine di un lavoro e poter esclamare “però, niente male!”. Se stai troppo attento rischi di non iniziare nemmeno. È importante lasciarsi andare, partire, con la testa che ormai ha sedimentato e la mano capace di muoversi da sola. La mancanza di riposte sicure, il dubbio continuo di fronte al lavoro, è sicuramente la sfida più bella nella pittura. Non solo per il pubblico ma anche e soprattutto per l’artista.. per me. Alla fine dei miei lavori io sono sempre molto deluso, poi però quando li riguardo, a mente fredda, mi accorgo se può funzionare.

    Come nascono i tuoi lavori?

    Non sono un pittore espressionista che ha bisogno dell’urgenza dell’ispirazione anzi, per me ogni momento ha la sua urgenza. È fondamentale per me capire dove voglio dirigermi. Finché non lo so non lavoro, poi quando capisco il problema porto avanti la mia analisi con molta regolarità e senza pianificare l’esito a priori. L’importante per me è essere consapevole della struttura che voglio ottenere.

    Parli di problemi, di analisi, di metodo. Di quali strumenti ti servi?

    Il disegno innanzitutto… e poi la luce e la sua modulazione. È con il disegno e con la luce che io costruisco. Del resto, sono un pittore che lavora sulla luce. Nei miei lavori più vecchi la luce era data da un passaggio, da un segno espressivo molto forte, che graffiava.

    Dimmi di più di questo segno.

    Il segno.. il disegno… è un aspetto molto importante per me. In passato per arrivare all’essenza del problema non riuscivo a restare fermo senza fare nulla in attesa di qualche ispirazione. Così ho iniziato a fare disegni. Avvertivo il bisogno di scaricare la mia energia ma di dovermi riscaldare per poterlo fare. Ogni giorno venivo in studio e facevo dieci, venti, di questi disegni fino a quando non mi sentivo calato nel problema. Era un vero e proprio esercizio di movimento e di sensazione. Quando poi mi sentivo carico andavo davanti alle grandi tele e davo dei colpi. Dopodiché mi fermavo e me ne andavo… tornavo il giorno dopo e riprendevo il mio esercizio.

    Che ne è di questi disegni?

    Tutti questi disegni sono studi che poi diventano quadri. Sono confluiti anche in un’installazione, Scale, che avevo montato per una mia mostra personale, Habitat, a Seriate. L’idea mi era venuta un giorno, quando ho deciso di montarli su muro dopo un periodo in cui li lasciavo sparsi per terra sul pavimento del mio studio. Tutt’oggi li conservo, sono almeno 150, e ancora oggi quando faccio degli studi li conservo insieme agli altri, come un mio diario di disegno. Costituiscono una parte di me intima, personale e significativa, che si riflette in un work in progress senza fine.

    Mi hai parlato dell’esercizio del disegno al passato. Perché, che cosa è cambiato?

    Ad un certo punto c’è stata la svolta e ho cercato di costruire minimizzando il gesto. Quando ho iniziato la serie di Habitat ho cercato di eliminare il disegno che solcava la tela, ho indebolito il passaggio della mano per rendere all’osservatore la percezione di un lavoro che prende vita da solo. Per farlo sfrutto le potenzialità della luce, grazie alle quali mi è possibile costruire e modulare la struttura del quadro.

    E adesso? Cosa fai? Come lavori?

    Ho un libro in cui continuo ad annotare tutti i miei appunti, gli studi, i particolari di luce, a volte anche insignificanti. Li faccio e li metto via, poi torno a osservarli, anche a più riprese, ed è allora che entrano nella rielaborazione delle mie tele. Partire dal disegno fa sempre parte del mio gioco. Anche se adesso mi accorgo di disegnare sul lavoro stesso, realizzando direttamente sulla tela quello che ricerco. Se prima mi era necessario un esercizio per rintracciare l’essenza di un segno, oggi preferisco scavare sul momento, modificarlo.

    Inevitabilmente cambia la lavorazione.

    Esattamente. I quadri frutto dell’esercizio preparatorio si caratterizzano per essere stati eseguiti molto velocemente. Mi esercitavo a ritmo serrato su un particolare aspetto e poi, quando trovavo la soluzione, intervenivo sulla tela con colpi veloci e decisi. I lavori di adesso invece mi richiedono molto più tempo in termini di lavorazione mentale, di attesa, di analisi e di ricerca. La difficoltà maggiore consiste nel non rendere mai banale una composizione che in realtà nasce da elementi banali… righe, scacchiere…

    18 metri di Habitat, per esempio. Me ne vuoi parlare?

    È un lavoro elementare, non è altro che alternanza di positivo e negativo. Ho voluto tenerlo il più elementare possibile proprio per poter lavorare sul concetto. La sfida è lavorare sull’elementare, non cercare l’impensabile. Realizzarlo è stato come tessere una tela, ogni giorno tracciavo quattro, cinque righe. Poi smettevo e il giorno seguente ricominciavo rielaborandole o con nuove righe.

    È un quadro di grandi dimensioni, come la maggior parte dei tuoi lavori. Perché?

    È vero, sono tre moduli da sei metri ciascuno. È il lavoro che chiude la serie Habitat e benché la dimensione renda difficile l’esposizione, per me è un lavoro inseparabile. È nato come un trittico, separarlo significherebbe interrompere il dialogo. Per me una tela da 2×1.60 metri è una misura standard, come potrebbe essere per altri un foglio da 50×70 cm… Capisci quindi che lavorare con le grandi dimensioni fa parte di me, l’ho sempre fatto. Forse per un fatto di cultura e di formazione. Quando ero giovane e andavo a vedere le mostre vedevo solo quadri enormi. Il presupposto da cui sono partito dunque è che il quadro dovesse essere enorme. Ma non è vero… Semplicemente la dimensione grande mi fa sentire molto più libero. Le tele piccole, che amo perché rappresentano una conquista tecnica per me, mi creano ansia. Richiedono un lavoro di cesellatura e di concentrazione, devo capire lo spazio, prendere le misure, modulare il movimento della mano… tutte operazioni che mi rendono difficile lavorare in piccolo.

    A cosa stai lavorando adesso?

    Ho ultimato da poco un lavoro a cui mi sono dedicato per tutto l’inverno appena trascorso. È un lavoro completamente nuovo. L’ispirazione mi è venuta in un bar, dove ho visto un poster di New York pieno di luci che sembravano brillantini. Allora l’ho fotografato e poi in studio l’ho rielaborato. Come nei miei lavori precedenti il gioco è sempre lo stesso, provare a dare la percezione di una parete di un palazzo illuminato con le lampadine che rompono la scacchiera. Non a caso il modulo di partenza sembra proprio farsi di tanti occhielli di luce che muovono la composizione. Da studente, mi ricordo, ogni volta che passavo davanti alla Torre Velasca di Milano mi sentivo perso di fronte alla totale mancanza di ordine nella disposizione delle finestre. Provavo a dargli un mio ritmo ma non la verità è che non esisteva, dunque era invisibile e inimmaginabile. Quando lavoro mi torna in mente spesso questo aneddoto.

    Come mai? Che rapporto c’è con il tuo lavoro?

    Io lavoro soprattutto con la luce. Mi piace studiarne le infinite possibili variazioni per poi sfruttarle e modulare nuovi spazi. Anche se può affiorare un riferimento legato a un’immagine, come accade nell’ultimo lavoro, ciò che più mi interessa sono le potenzialità della luce e le variazioni di colore, non la formella o lo spiritello. Spesso mi si chiede cosa rappresenti il segno dei miei quadri ma per me rappresenta esattamente quello che si vede, cioè la composizione di una forma che si muove nello spazio. Questa è una cosa che sta dentro di me, mi piace guardare un corpo qualsiasi che si muove nella penombra, che viene avanti. Ti guardo mentre riposi, per esempio, è un lavoro molto grande che ha questa caratteristica. Non sono affatto due persone dormienti, sono invece due movimenti di testa che io sento nel momento del sonno di un corpo, di una mente, di qualsiasi cosa.

    Torniamo al tuo ultimo lavoro. Raccontami qualcosa di più.

    Nasce dalle lastre di una risonanza magnetica a un ginocchio. Le ho lasciate attaccate al vetro per molto tempo perché mi sembravano cose banali. Il rischio era copiarle e fare anatomia, cosa che a me non interessava. Non ero attratto dalla lastra in sé e non volevo semplicemente fare una copia della cosa. Avevo piuttosto bisogno che si trasformasse in altro, volevo una composizione serrata. Per sperimentare la variazione ho fatto molto uso della luce e del colore. Sembrano molto black ma, ci tengo a specificarlo, io ho usato variazioni di nero, non il nero. Solo così sono riuscito a ottenere delle modulazioni dello spazio che rendono il lavoro diverso sia dal punto di vista di chi guarda che da quello di chi lo fa. Nel primo lavoro per esempio ho usato un nero pece sporcato di viola, nell’ultimo ho ripassato il nero con il colore blu. È una questione di pura grammatica pittorica, si tratta di usare colori che conducono in uno spazio oscuro, come il nero ma più morbido, da cui sono riuscito a far emergere la luce. Anche perché ho iniziato a rielaborare il modulo per gioco, senza conoscere l’esito, tracciando righe, cancellandole, muovendole, nel tentativo di mostrare la ripetizione variabile della cosa.

    Che cosa intendi per ripetizione variabile?

    La ripetizione fa parte della mia pratica artistica. Un gesto, un segno, per me possono essere continuamente ripetuti. Ma questi non saranno mai identici, saranno sempre diversi. Dal punto di vista del fare artistico io dipingo sempre con la stessa tecnica e lo stesso approccio concettuale. Anche dietro a questo lavoro c’è lo stesso concetto che sottende ad Armadi, Habitat e Scale. Si tratta della ripetizione di un modulo che si trasforma continuamente perdendo la sua identità. Sono molto attratto dalle lastre proprio per il loro carattere di composizioni di immagini che si ripetono all’infinito impedendoci di toccarle e di scoprirle perché non si danno mai pienamente.

    Ne parli come se fossero creature viventi, appena nate. Che rapporto hai con le tue opere?

    È vero. Mi calo così tanto nei miei lavori che ho con loro un legame molto forte, tanto da non riuscire ad analizzarli se non c’è abbastanza distacco.

    Di che distacco parli?

    Credo sia una delle poche libertà che ci vengono concesse come uomini e nel mio caso anche come artista. È proprio un mio metodo di lavoro… quello che mi interessa lo elaboro spostandomi di poco nell’analisi del problema. Quando metto a fuoco l’aspetto enigmatico mi fermo e lascio sedimentare… a volte per poco tempo, altre più a lungo. Poi riprendo in mano le opere e queste si trasformano in cose altre. Del resto anche io mi trasformo, non sono mai la stessa persona dell’attimo precedente. Di conseguenza si modificano le forme nello spazio rendendo possibile la costruzione, o la scoperta, di nuovi dialoghi.

    Mi sembra che ci sia molto dialogo nelle tue opere. Sbaglio?

    No, non sbagli. Cerco sempre di creare un dialogo tra quello che faccio. Svegliami per esempio nasce con l’intenzione di creare un dialogo sul colore nero con il nero. È un dittico, è legato al tema autobiografico del doppio e al tema del dialogo. Da una parte c’è la mia visione, più organica e mossa, dall’altra invece una versione più severa. Io provo a farle dialogare, ad avvicinarle e poi allontanarle, e poi ancora a ritentare un contatto. Anche se credo che non si uniranno mai… O forse chissà, un giorno ce la farò. E allora quel giorno smetterò di dipingere (ride).

     

    The Blank Board | Intervista a Virgilio Fidanza
    [= The === Blank ==== Board ===== Intervista == a == Virgilio ==== Fidanza =]



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    In occasione di ARTDATE 2014,

    Virgilio Fidanza aprirà il suo studio

    Domenica 18 maggio 2014 dalle 10.00 alle 12.00

    Via Spiazzi 6, Albino

    THE BLANK BOARD

    Un progetto a cura di Elsa Barbieri e Maria Zanchi.

    Intervista di Elsa Barbieri

    Foto di Maria Zanchi

    La creatività sta nello sguardo incantato di ognuno.

    Virgilio Fidanza

     Virgilio, sei un fotografo di professione. Cosa deve avere una fotografia per catturare lo sguardo?

     La fotografia per me è una questione semantica. Non pratico la fotografia documentativa, la fotografia che mi interessa ha piuttosto una capacità evocativa. Come la poesia. Trovo il linguaggio poetico estremamente libero,  non come il linguaggio quotidiano dove si è costretti a dire nelle forme prestabilite proprie del linguaggio.

    Che cosa evocano le tue fotografie?

    Una fotografia è tale se evoca, diversamente non funziona universalmente. E in quanto tale non deve mai mostrare qualcosa per quel che è. Il bicchiere, ma non quel bicchiere, altrimenti restiamo nella nostra, importante, ma ristretta sfera affettiva. Deve piuttosto evocare quella cosa tramite una sostituzione simbolica che esca dalla sfera personale dell’autore per invadere l’universale. Il mio ultimo lavoro, +corpiriuniti, per esempio, realizzato nell’ex complesso dell’Ospedale Riuniti di Bergamo, si articola in diverse sezioni, o meglio corpi. Uno di questi è dedicato alle sedie su cui innumerevoli persone hanno atteso. Chiunque le guardi proietta in esse una quantità infinita di immagini. Immagini che non possiamo cogliere nell’immagine, ma che vengono evocate in noi.

    Evocano la memoria? Una memoria condivisa?

    Assolutamente no. La fotografia non funziona come impronta della forma, o meglio non è assolutamente riducibile solo a quell’aspetto.  Evoca il vissuto, rimanda al vissuto. E il vissuto stimola la vita, non la memoria. Quella vita che modifica continuamente i nostri ricordi.

    Cosa è dunque una fotografia, se non un’impronta della forma?

    Per me la fotografia è un medium che fissa un particolare selezionato che restituisce, costruendola, una porzione di realtà. Reale (come trovato) o finto (come costruito) che sia il quel particolare. Perseguendo la neutralizzazione del mezzo, che è condizione per giungere all’universale, in gioco restano sempre forma e impronta. Cambia solo la relazione. Per me una fotografia funziona solo se è forma dell’impronta. Di ogni soggetto mentre esiste solo un’impronta possono esistere molte forme di quell’impronta. Il problema è capire quale di queste noi scegliamo o costruiamo. Le sale d’attesa di cui parlavo poco fa per esempio. Io entro in relazione con lo spazio, vale a dire porto là il mio corpo, e mentre scelgo come rappresentare le sedie, penso contemporaneamente al loro significato/valore simbolico. Così, nell’apparente neutralità dell’immagine, ogni fruitore potrà avviare un’indagine sul vissuto umano: “quante persone si sono sedute?”, “con che stato d’animo?”, “con quali gesti?”.

    Hai accennato alla finzione, l’hai evocata. Che cosa intendi?

    La fotografia funziona solo nel reale, e la finzione è anch’essa reale, come il teatro. L’importante è che rimandi alla realtà, al vissuto. Una maschera per esempio può avere valenza positiva se è usata per gioco, una valenza negativa se invece è usata per inganno, in entrambi i casi non è l’impronta della maschera che muta ma l’uso che ne facciamo. Allo stesso modo funziona il linguaggio poetico o letterario nei confronti della maschera-linguaggio. E altrettanto può fare la fotografia. Non contano gli attribuiti che convenzionalmente le si danno, positivo e negativo, vero o finto, tutto dipende dalla funzione che le attribuiamo.

    Per questo hai scelto di utilizzare in alcuni tuoi lavori, “mezzo- corpo-immagine” esposto alla Wave Photogallery, per esempio, le fotografie mosse?

    Le fotografie mosse non nascono da una scelta estetica. Alle fotografie esteticamente belle ho sempre preferito quelle capaci di rappresentare il vissuto con le sue emozioni. Le fotografie scattate in movimento, nel viaggio in auto, sono quelle più vicine a noi, che guardiamo sempre più il mondo mentre siamo in movimento, perché il nostro corpo è in perenne movimento.

    Parlami di questo progetto

    È una serie di cinquanta immagini, realizzate tra il 2003 e il 2013,  iniziata nei miei spostamenti tra Bergamo e Brescia per raggiungere l’Accademia. In gioco ci sono tre corpi: quello tecnologico, la fotografia/automobile,  il corpo e l’immagine. Quando viaggiamo, liberi di muoverci ma sempre all’interno di un percorso prestabilito, cambia la dimensione spazio-temporale. E di conseguenza cambia il nostro corpo e con esso anche lo sguardo,  perché riceve nuovi stimoli, un modo diverso di rapportarci al mondo.

    Che cosa intendi per ‘percorso prestabilito’?

    Penso alle strade. Le rete stradali sono libere, ognuno sceglie quale strada percorrere. Ma dopo averla scelta è obbligato a seguirne il tracciato imposto.

    Cosa fai per evitare i percorsi già decisi?

    Sono cresciuto con la convinzione di dovermi impegnare a livello sociale, è tipico della mia generazione. Eppure la mia indole solitaria è uscita allo scoperto. Mi sono ritagliato il mio spazio, all’interno della natura, dove posso vivere con i ritmi del ciclo naturale e godermi tutto ciò che esiste. È fondamentale mettersi e rimettersi sempre in gioco.

    È questo che insegni ai tuoi studenti?

    Si. È importante che sappiano mettersi in gioco. Perché lo apprendano chiedo loro un esercizio tosto, che tutti dovremmo fare. Chiedo loro di autoritrarsi, così sono costretti a chiedersi chi sono senza l’aiuto della tecnica, la “medicina” che tutti usiamo per rispondere al sistema.

    Che cosa è per te la tecnica?

    È uno strumento fine a se stesso che deresponsabilizza. Lo scorso anno ho tenuto un corso in Cina, al Politecnico di Beilun, e là mi sono reso conto di come ormai l’uomo confonda le immagini tecnologiche con il mondo. Il titolo del corso era “Dall’albero mitologico all’immagine tecnologica”. È stato un percorso che mi ha permesso di portare alla luce il ruolo dell’immagine tecnologica nella contemporaneità. L’immagine tecnologica nasce come strumento capace di rendere comprensibili i testi e mantiene un legame con le immagini tradizionali, quindi anche con il loro carattere magico, perché circolare, come il ciclo naturale. Seppure la sua impronta non dipenda dall’abilità dell’uomo ma è generata da un medium tecnologico, l’uomo si aggrappa ad essa per restare in contatto con il mondo magico. Così facendo però nell’uomo cresce la convinzione errata che dal momento in cui è in grado di produrre immagini (lui o l’apparato tecnologico?) poi sia anche capace di decifrarle.

    Che rapporto esiste tra fotografia e tecnica?

    La fotografia non è tecnica, non è riducibile al solo fatto tecnico, io mi considero un “animale non tecnico”. Il perché è molto semplice: la fotografia dovrebbe avere una finalità espressiva rivolta all’uomo, non a se stessa come la tecnica. Oggi tutto ruota intorno alla tecnica, la politica per decidere guarda all’economia, che a sua volta guarda alla tecnica, e la tecnica è priva di finalità. Vivere, guardare e pensare non possono e non potranno mai essere soppiantati dalla tecnica. È una questione vitale. Nello stile di vita sta il mio atteggiamento verso il mondo. Uno stile autentico perché praticato. Poi c’è uno stile mercantile. Ma non me ne curo perché prescindere da me stesso per obbedire alle logiche del mercato mi è impossibile. Quanto meno nella fotografia d’autore. Ecco perché preferisco muovermi ai margini, verso il profano.

    Che cosa intendi per profano?

    Intendo dire che il mio percorso creativo è decentrato rispetto alla sacralità consacrata dal mercato. Vedo i giovani e mi accorgo delle loro difficoltà a pensare. Non perché non ne siano capaci, ma perché rispondono al sistema. Non va bene. Bisogna profanare questo percorso, spostarsi, andare oltre, per restituire la creatività. Quella vera, quella che sta nella periferia dell’impero e nello sguardo incantato di ognuno di noi.

    Abbiamo tutti questo sguardo incantato?

    Assolutamente si. È solo che  non lo sfruttiamo. Le immagini, le troppe immagini, agiscono su di noi come schermi che ci impediscono di vedere il mondo. Me ne sono accorto in Cina ma è così ovunque. Ormai ci muoviamo in funzione delle immagini, l’atteggiamento è da posa fotografica. L’immagine attesta la nostra identità. Sbagliato! L’immagine può evocarla, non rappresentarla. Altrimenti nessuno più si mette in gioco, rischia e azzarda.

    Tu hai rischiato?

    Si. ci provo, a mettermi costantemente in gioco. Ogni giorno in questo spazio che mi sono ricavato nella natura. Di fronte a me ho il mio unico riferimento: il ciclo vitale. Se non ci si mette in gioco, l’esistenza rimane un’occasione perduta. E le mie fotografie nascono e vivono di questi stimoli.

     

    THE BLANK BOARD | INTERVISTA A ITALO CHIODI
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    In occasione di ARTDATE 2013,
    Italo Chiodi aprirà il suo studio in via Don Giuseppe Ronchetti 11, Bergamo
    Domenica 19 Maggio dalle 10.00 alle 14.30

    THE BLANK BOARD

    un progetto a cura di Claudia Santeroni e Maria Zanchi

    Intervista di Claudia Santeroni
    Photo di Maria Zanchi

    Inizierei come sempre chiedendoti della tua formazione.

    Sono figlio d’arte, mio padre dipingeva, per cui da ragazzo facevo qualcosa, anche solo per una sorta di istintività familiare. La vera partenza di tutto è però un incidente che ho avuto quando, a vent’anni facevo il lattaio, che mi ha fatto capire che dovevo cambiare strada, riprendere gli studi che in precedenza avevo abbandonato. L’unica scuola alla quale potevo accedere, in ritardo nelle iscrizioni, era l’Accademia Carrara, che all’epoca era concepita come una bottega-laboratorio nella quale alcuni insegnanti ti accompagnavano nell’apprendimento delle varie tecniche artistiche. Successivamente il destino mi ha portato a Brera, dove ho studiato pittura per altri quattro anni. Oggi qui insegno ‘Disegno’ dopo aver peregrinato per alcuni anni in varie Accademie italiane.

    Quando inizi ad occuparti della tua ricerca artistica?

    Guardandomi indietro, mi sono reso conto che il perimetro del mio lavoro nasce nel luogo dove ho costruito i miei primi passi, Villa d’Ogna, un piccolo paesino della bergamasca. Il fiume, la fabbrica, il bosco e un canale d’acqua, sono stati gli elementi sui quali ho formato il mio sguardo e dove volentieri sono sempre ritornato. Di volta in volta i segni e i gesti del paesaggio si sono trasformati in linguaggi diversi, diventando pittura, scultura, installazione. Mi è difficile all’oggi definirmi o darmi una etichetta. Non mi direi né scultore, né pittore, ma artista, ma non in modo presuntuoso, ma artista in quanto operatore all’interno di questo mondo; amo occuparmi di arte e utilizzarne tutti i mezzi che i vari linguaggi mi offrono per sviluppare l’idea che in quel momento ho in testa.

    Qual è la tua fonte d’ispirazione?

    La più grossa fonte di ispirazione è la natura, anche se, vivendo in città da molti anni, ho un forte legame anche con l’ambiente urbano. Ultimamente sto lavorando sull’idea della natura all’interno della città, ad esempio il fiore o piccole piante che nascono sugli spigoli o sui tetti delle case, negli angoli dei marciapiedi o in luoghi abbandonati, e non solo di periferia. Questi elementi che sto osservando da un po’ di tempo diventano piccoli corridoi naturali che collegano ambienti diversi: la natura e la città, il fuori e il dentro.

    Il tuo  progetto lavorativo attuale si impronta su questa tematica?

    Il lavoro di cui mi occupo ora ha come elemento principale il seme, come metafora del viaggio, della migrazione all’interno dei luoghi. Lo spostarsi va a costruire nuove abitabilità, allarga costantemente i confini, il perimetro del proprio vivere. In un primo momento, come faccio di solito, ho prodotto una serie di disegni, che mi hanno aiutato ad entrare meglio nell’idea, a chiarirmela, poi mi sono concentrato su uno in particolare, che ho voluto ingrandire. Per sviluppare questa idea sto utilizzando la pittura ad acrilico, con aggiunta di segni a matita, carboncino, mordente.

    Collabori con una galleria?

    Ho fatto alcune mostre in qualche galleria ma, una sorta di collaborazione continua non l’ho mai avuta. Mi sono sempre mosso, un po’ anche per scelta, fuori dai circuiti soliti. Ho avuto qualche proposta che però non coincideva con l’idea che avevo io dell’esposizione e inoltre perché per molti anni ho voluto investire nell’insegnamento, professione che amo molto. Nel periodo milanese ho fatto diverse mostre insieme ad un gruppo di compagni di scuola, ma non mi apparteneva l’idea di cercare un luogo e doverci dividere lo spazio per esporre i lavori. Avevo la necessità in quegli anni di un un modo diverso di interpretare l’idea di spazio espositivo. Mi sono allontanato da quel gruppo, ed ho iniziato una serie di relazioni con altri artisti più vicini a me e a quella idea che mi ronzava in testa. Con loro ho condiviso per anni un percorso, improntato sul creare opere che si relazionassero allo spazio espositivo, lavorando per progetti “site specific”. Contemporaneamente insegnavo, quindi non avevo l’ansia di dover vendere i miei lavori. Questo meccanismo dei progetti, che mi appagava poeticamente, probabilmente mi ha escluso dalle gallerie. Ritenevamo che ogni elemento che concorreva alla realizzazione della mostra, compreso il catalogo, fosse importante. Per questo dedicavamo molto tempo alla progettazione sia delle opere che della collocazione di queste nello spazio. Doveva risultare qualche cosa di unitario di collettivo, a scapito a volte dell’aspetto individuale. Per dieci anni ho lavorato in questo modo, soprattutto insieme ad altri 3 artisti. Questo per me è diventato un’enorme ricchezza intellettuale, che cresceva di pari passo alla mia ricerca individuale.

    Un artista che ammiri che  ti ha preceduto ed un contemporaneo che ti incuriosisce.

    Io sono una sorta di “tuttivoro”. Mi piace Anselm Kiefer, Christian Boltansky, Sean Scully, ma allo stesso tempo amo Richard Long, la pittura medievale, le sculture egizie e l’arte primitiva. Credo esista una sorta di “modo di essere artista”, che si traduce in epoche differenti, producendo opere diversissime fra loro, ma accomunate da un filo rosso.

    Come influisce il tuo ruolo di insegnante nella tua ricerca? Una linfa cui attingere, una fonte di ispirazione, una distrazione …

    Non mi sento distaccato da niente, tutto mi appartiene e tutto sono io. Sono un’entità unica, che si sviluppa in più settori, cercando di lavorare creativamente in ciascuno di essi senza discontinuità. Ogni luogo che frequento e ogni persona che incontro mi offre stimoli diversi. Come mi piace dire: noi siamo tutti i luoghi e tutta la gente che incontriamo.

    Un tempo studente della Carrara e di Brera, oggi insegnante dell’Accademia. Una tua lettura sui mutamenti del panorama accademico.

    I linguaggi e le esigenze sono completamente cambiate. Oggi esistono: il digitale, Skype, internet, facebook, le email … e tutto questo è fantastico. I giovani della mia generazione non ne hanno certo potuto godere, ma avevano altri linguaggi, altri mezzi, altre esigenze. Come insegnante cerco sempre di offrire quello che sono e che ho costruito, facendo amare ai miei studenti innanzitutto il linguaggio del disegno e tentando di trasmettere loro l’amore per i dettagli, per le piccole cose, la differenza fra carte diverse, tra le differenti attrezzature, l’idea di viaggio e del viaggiare, di navigazione e del navigare. Capisco siano raffinatezze della mia generazione, che non appartengono alla concezione della realtà dei miei alunni che stanno vivendo i loro anni di formazione oggi, improntati sulla velocità e sulla fruizione rapida. I nostri sguardi forse vanno in direzioni diverse, ma diventa importante per me la compresenza di punti di vista e di punti panoramici differenti. Devo considerare che avrò nel tempo sempre studenti ventenni. Fra cinque anni insegnerò a ventenni. Questi saranno nativi informatici, e dovrò comunque portarli a sviluppare uno sguardo lento sulle cose e spero di riuscire ad insegnare loro la bellezza della natura con i suoi ritmi e l’idea dei semi come metafora del viaggio, della migrazione e della rigenerazione nel lento mutarsi delle cose.

    Inserimento dei giovani artisti nel panorama contemporaneo. La tua lettura da artista indipendente e insegnante dell’Accademia di Brera.

    Anche in questo caso i tempi sono cambiati. Molti dei miei colleghi a scuola mi raccontavano che da giovani, ancora in molti casi ancora studenti, venivano chiamati dalle gallerie. Appena producevano qualcosa avevano la possibilità di esporla e di venderla. È vero che forse erano meno di adesso e le gallerie forse più disposte ad investire sui giovani. Ritagliarsi uno spazio oggi per i giovani è un po’ più difficoltoso. Il disegno e la fotografia per esempio sono state considerate le cenerentole del mondo dell’arte, mentre oggi vengono considerate a oggetti artistici a pieno titolo. Penso che sia necessario cambiare la logica e la modalità di esporre, perché sono diverse anche la percezione e la fruizione delle opere. Ogni linguaggio è vivo, e per questa ragione necessita di trasformazioni costanti per evolversi. I giovani artisti devono essere capaci di intuire ed inventare nuove formule che rispondano alle richieste della contemporaneità.

    The Blank Board | Intervista a Mario Cresci
    [=== The == Blank === Board ====== Intervista = a === Mario ===== Cresci ==]
        [== LINK ==]

    In occasione di ARTDATE 2013,
    Mario Cresci aprirà il suo studio in via Garibaldi 19, Bergamo
    Sabato 18 Maggio dalle 15.00 alle 17.00

    THE BLANK BOARD

    un progetto a cura di Claudia Santeroni e Maria Zanchi

    Intervista di Claudia Santeroni
    Photo di Maria Zanchi

     

    Raccontaci come sei arrivato a Bergamo.

    Si può dire che questa sia la mia ‘second life’. Sono arrivato a Bergamo agli inizi degli anni ’90, chiamato da Carlo Bertelli, per dirigere l’Accademia Carrara di Belle Arti. Qui ho iniziato una seconda fase della vita, imprevista rispetto alle mie aspettative perché lavorare in una scuola significa anche occuparsi degli altri. Ad essere sincero la dimensione educativo – formativa era già iniziata in Basilicata, ma lì lavoravo a stretto contatto con giovani che non si occupavano prettamente di Arte, mentre è stato a Bergamo che ho preso contatto con i programmi della formazione artistica e riallacciato i rapporti con gli artisti. Quando ho iniziato a insegnare alla Carrara di Bergamo ho trovato un contesto difficile, in cui era complicato occuparsi di Arte Contemporanea, perché sembrava non interessare. Il mio ruolo è stato quello di rompere il ghiaccio, perché desideravo che l’Accademia diventasse un luogo di ricerca, aperto a tutte le sfaccettature della creatività. Nel 2000 è cessato il mio impegno con l’insegnamento e ho potuto iniziare a occuparmi nuovamente della mia ricerca personale: ho lavorato come un matto e quanto ho prodotto negli ultimi dieci anni è molto più intenso e articolato rispetto a tutto quanto avevo realizzato in precedenza.

    Quando scaturisce la tua fascinazione nei confronti del mezzo fotografico?

    È successo casualmente devo dire! Ho fatto il Liceo Artistico a Genova e in quegli anni non si studiava Fotografia o Grafica; erano materie lontane anni luce dai Licei e dalle Accademie, dove si insegnavano Scultura e Pittura … Cosi ho iniziato a fotografare per hobby. Successivamente mi sono iscritto a Venezia al Corso Superiore di Industrial Design,che era appena stato istituito. Mi piaceva questa nuova forma d’arte e mi interessava la progettazione degli oggetti, per cui anziché all’Accademia o ad Architettura, mi sono iscritto lì dove c’era anche ‘Fotografia’, materia che ci veniva insegnata in modo molto sperimentale. Se ti trovi nel contesto giusto durante gli anni della formazione, apprendi, crei, produci: è l’età che più ti forma e per me è stato così a Venezia. Se non avessi fatto quella scuola, dopo non avrei fatto certe ricerche. Grazie alla formazione non accademica ho imparato a trasferire i vari insegnamenti nella mia pratica fotografica. A Venezia è nata infatti la mia prima serie dei quadrati: dipingevo un quadrato rosso sul muro e facevo 36 scatti usando il grandangolare, creando 36 forme diverse non più quadrate. Era un omaggio a Malevich.

    Ti formi nello stesso periodo di altri grandi fotografi italiani, Ghirri, Jodice, Guidi, Basilico. È vero che i giovani fotografi italiani sono ancora legati alle stesse tematiche visive che trattavate voi? Che devono ancora ‘elaborare il lutto di Ghirri?

    Si! È vero, anche se meno rispetto ad alcuni anni fa. Ghirri usava la macchina fotografica, ma la sua mente era quella di un artista:straordinaria! È morto nel ’92 e non si è neanche potuto godere la sua gloria, perché è stato scoperto dopo. Eravamo molto amici e abbiamo fatto anche dei lavori insieme. Luigi veniva da una formazione particolare, aveva studiato come Geometra e anche lui sosteneva che la scuola era stata fondamentale. Tutti gli artisti fotografi della mia generazione hanno dovuto convivere con il pregiudizio che chi si occupava di Fotografia non faceva Arte. I due mondi venivano considerati separati e la cultura del fotografico in Italia non era mai stata né insegnata, né coltivata. Anche oggi molti storici di Arte Contemporanea non sanno nulla di Fotografia. Personalmente, ho tratto giovamento dall’approfondimento di artisti provvisti di una ‘multisensorialità’, come Boetti o Paolini perché per me la fotografia non è solo legata all’atto del vedere, ma è un atto di coinvolgimento totale.

    L’atteggiamento della critica ha veicolato questo discorso di aderenza alla tipologia di immagini di matrice ghirriana – paesaggistica?

    In parte si. L’opera di Ghirri è stata studiata da decine di autori diversi, ma nessuno l’ha analizzata come andava invece fatto; servirebbe una lettura più approfondita. Luigi lavorava con il metodo che adottavamo noi in quegli anni,ovvero quello della serie, per cui ogni scatto va considerato come un’opera a sé stante, una storia. Il suo percorso è stato letto in maniera sommaria; ci sono decine di opere che nessuno conosce, come la serie degli autoritratti, splendida.

    Ultimamente vengono spesso approfonditi i nessi fra Fotografia e Scultura. Come leggi questa inclinazione a voler indagare l’immagine fino al punto da tradurre la sua bidimensionalità in qualcosa di fruibile tridimensionalmente?

    Questa è un’esigenza che affonda le sue origini addirittura nella scuola di Dusseldorf e nell’insegnamento dei Becher che, non a caso,vinsero il premio della Biennale per la Scultura e non come fotografi.  Fotografavano le costruzioni di archeologia industriale come se fossero delle grandi sculture, delle quali non volevano però dare una connotazione solo fotografica, ma intendevano interpretarle come strutture autonome, segni possenti. È un operazione molto interessante, perché l’immagine bidimensionale se viene estrapolata dalla sua dimensione e percepita, ha una vocazione tridimensionale fortissima. Come ho già detto, in quegli anni l’Accademia di Dusseldorf vantava dei mostri sacri come docenti: i Becher perla Fotografia e Richter per la Pittura ed è questa compresenza di personalità forti che l’ha fatta diventare un punto di eccellenza nella formazione degli artisti, da Gursky a Struth o Ruff.

    Nel panorama artistico contemporaneo, un giovane che ha l’ambizione di emergere è indotto a sperimentare  e ricercare, o piuttosto a fossilizzasi su delle immagini vendibili limitando il suo percorso?

    Il rischio è quello che si riducano  a fare cose modaiole per accontentare la richiesta. Mi viene in mente una frase che disse Angela Vettese: “artisti non si nasce, ma si diventa”.  Chi desidera fare l’artista deve relazionarsi ai meccanismi e ai gusti del mercato, ma è una modalità che secondo me non ha più a che fare con l’Arte, perché la gestione della produzione artistica dovrebbe rimanere estranea rispetto alla ricerca che si conduce. È un vecchio problema. Ricordo che alla fine degli anni ’70 andammo io e Ghirri alla Galleria Marconi di Milano, invitati perché al gallerista interessava vedere i nostri lavori. Eravamo felicissimi. Giudicò le opere interessanti e ci disse che ci avrebbe ricontattati dopo qualche giorno. Passarono i mesi e fui costretto a telefonargli per sapere che ne era stato delle nostre fotografie.Tornammo a Milano e lui ci disse che non era più interessato, perché dalla vendita di un quadro poteva ricavare molti soldi, mentre da una fotografia no.E questo è accaduto con un gallerista importante! Purtroppo quando un’opera entra nel circuito del mercato diventa merce. Pochissimi investono sui giovani,che fanno una fatica immensa a entrare nel sistema, perché spesso il mercato punta sempre sugli stessi nomi. L’idea che ha accompagnato sempre la mia vita creativa è stata quella di continuare a ricercare. Non apprezzo chi continua a produrre per anni sempre le stesse cose. Non avendo mai avuto rapporti stretti con le gallerie ho potuto lavorare liberamente, senza condizionamenti (anche se al limite della sopravvivenza … ).

    È l’artista che accresce il potere di una galleria o il contrario?

    Oggi l’artista deve essere una macchina da guerra, capace di sfruttare le strategie di marketing. I giri grossi si creano in sede d’asta:se Sotheby’s, ad esempio, vende a 40.000 Euro l’opera di un artista, allora tutte le gallerie che posseggono questo autore possono alzare il prezzo dei suoi lavori. Quelli della mia generazione iniziano a vendere adesso ché abbiamo superato i sessanta anni. L’artista anziano vende di più, né per meritocrazia né perché è una vita che ricerca. Ghirri a cinquanta anni non vendeva una foto.Io stesso non ne ho mai venduta una prima dei sessanta anni! La maturità è un elemento che facilita l’acquisto, perché l’artista diventa un potenziale investimento.

    Come si sente una persona che ha dedicato la vita alla sua ricerca artistica, quando comprende un meccanismo simile?

    Ti rendi conto della realtà! Personalmente non mi preoccupo tanto per me stesso, quanto per il destino della vostra generazione. Un altro problema correlato a questo è la gestione del patrimonio artistico di artisti viventi o scomparsi: c’è la corsa all’accaparramento delle opere e il corpus del lavoro viene smembrato, pochissimi si occupano di istituire delle Fondazioni, di creare degli archivi e questo incide sulla trasmissione della cultura.

    Le persone che leggeranno l’intervista conosceranno già parzialmente il tuo lavoro, però vorrei dare anche un’infarinatura generale di quella che è la tua ricerca e fare un parallelo con una piccola spiegazione tra un lavoro importante del passato e l’ultimo a cui ti sei dedicato.

    Nei primi anni ’70 lavoravo insieme ad un gruppo che si chiamava ‘Il Politecnico’. Loro facevano i piani regolatori e io mi occupavo della parte visiva. È in questo contesto che nascono i ’Ritratti reali’, una serie composta da circa quaranta opere, ciascuna un trittico. La prima immagine è una visione generale dell’ambiente domestico; fotografavo le persone che trovavo nelle case in quel momento, chiedendo loro di guardare verso l’obiettivo. Nella seconda immagine c’è sempre qualcuno che tiene in mano una fotografia di famiglia, scelta dai proprietari di casa (mi interessava anche indagare il tema della fotografia nella fotografia). Infine ho sempre fotografato da sola, distesa sul pavimento, la fotografia di famiglia scelta, isolata da tutto. È un’opera  in cui l’aspetto antropologico-documentaristico della fotografia si collega a quello concettuale-estetico. Invece l’ultimo lavoro a cui mi sono dedicando nasce in maniera strana, da un incidente di percorso: mentre stampavo la macchina si è inceppata, strappando la carta. Stavo per distruggere tutto, disperato, ma mi sono fermato e ho iniziato a piegare l’immagine stampata finché ho potuto. Poi l’ho montata su un foglio di carta bianca e messo il tutto sotto plexiglass. Il titolo è ‘I piegati’. Molti lavori nascono da errori … anche se di solito non lo si racconta.

    Abbiamo la nostra città candidata a Capitale della Cultura 2019. Una tua lettura.

    Mi sembra un’operazione di facciata, anche ambiziosa,quindi sono molto scettico. Non mi entusiasma, perché non so se possa provocare un cambiamento sostanziale. Potrebbe essere infatti un incentivo per coloro che operano sul territorio, nel pubblico e nel privato, per realizzare un programma culturale credibile… ma non ci sono i soldi per farlo!

     

    THE BLANK BOARD | INTERVISTA A PAOLO BARALDI E DANIELE MAFFEIS DI UPPER ART
    [== THE ==== BLANK == BOARD === INTERVISTA === A === PAOLO ===== BARALDI == E ==== DANIELE === MAFFEIS ==== DI ==== UPPER = ART =]



        [== LINK ==]

    In occasione di ARTDATE 2013, Paolo Baraldi, Daniele Maffeis e Simone Longaretti apriranno il loro studio upper Art in via Pescaria 1, Bergamo

    Venerdì 17 Maggio dalle 21.00 alle 24.00

     

    THE BLANK BOARD

    un progetto a cura di Claudia Santeroni e Maria Zanchi

    Intervista di Claudia Santeroni

    Photo di Maria Zanchi

     

    Cosa è upper Lab?

    PAOLO BARALDI – E’ un’associazione che gestisce lo spazio omonimo, nel quale si svolgono attività di coworking. Ospita diverse realtà che collaborano, fra le quali una è upper Art, composta da me, Simone Longaretti e Daniele Maffeis; siamo tre artisti che portano avanti la loro ricerca individuale e curano la parte espositiva dello spazio. Le altre realtà sono Yanzi, HG80, Matè Teatro, Spazio Teatro, Gattoquadrato.

    Collaborate tutti, oppure condividete semplicemente lo spazio?

    PB – Il coworking, così come vorremmo declinarlo qui,prevede tre momenti, uno consequenziale all’altro. Il primo, è che ognuna di queste realtà porti in dote il proprio bagaglio di esperienza. Il secondo passaggio prevede che i vari soci di upper Art si rivolgano alle potenzialità interne, se possibile, senza cercare altrove; ad esempio, se  a noi di upper Art serve un grafico, se ce ne è uno qui, mi rivolgo a lui. La terza fase, che è quella cui stiamo arrivando,suppone che nascano progetti ex novo dalle realtà che collaborano ad upper Lab.

    DANIELE MAFFEIS – Inoltre l’associazione culturale, oltre a sviluppare nuovi progetti, vuole anche essere promotrice di eventi, soprattutto interne allo spazio espositivo, e nella gestione e organizzazione di questi momenti  collaboriamo tendenzialmente tutti.

    Cosa era questo spazio prima?

    PB – Precedentemente era parte della SAACE, poi è stata per molto tempo una falegnameria e, in ultimo, ha ospitato la Tupperware. Dopodiché è stata sfitta per circa sei mesi, finché la cooperativa HG80 non ha pensato di affittare lo spazio per poi proporre ad altre realtà strutturate di condividerlo, come fossimo una società terza che cogestisce il luogo.

    Da cosa scaturisce il desiderio di creare un luogo come questo?

    PB – L’idea era fondamentalmente di ‘condividere le cose belle’: abbiamo voluto prendere uno spazio grande, in cui convergere idee e progetti, a partire da un luogo stimolante. Non ci interessa la logica che ha animato il panorama culturale underground di questa città negli ultimi anni,ovvero ognuno lavorare nel proprio orto. A Bergamo è la prima realtà di questo tipo. C’è stato un meccanismo atipico nella costruzione, ovvero non avere un progetto ed affittare uno spazio ma, al contrario, la cooperativa HG80 ha affittatolo spazio e poi proposto ad altre realtà, ritenute interessanti e potenzialmente interessate, di partecipare. Nell’arco del mese di settembre 2012 abbiamo occupato praticamente tutti gli spazi disponibili, sono rimaste una o due scrivanie.

    Cosa intendi per ‘una o due scrivanie’?

    PB – Alcune realtà, come noi di upper Art o Gattoquadrato,hanno uno studio, alcune hanno un ufficio, come HG80, altre ancora hanno una scrivania, un posto più affrontabile economicamente, che comunque consente loro di usufruire dello spazio espositivo.

    Un privato puòchiedervi una postazione, o deve essere per forza un’associazione?

    PB – Può essere anche un privato, ma si deve associare ad upper Lab. Ovviamente prima verifichiamo insieme se ci siano le condizioni perché questo avvenga.

    Ditemi di upper Art.

    DM – Io, Paolo e Simone abbiamo fatto l’Accademia Carrara insieme. Quando Paolo ha dato vita a questo progetto insieme alla sua cooperativa HG80, voleva portare il suo studio personale qui, e ci ha chiesto semplicemente se volessimo collaborare. Dal mio punto di vista è stata una proposta molto bella, rivelatasi anche produttiva, nel senso che lavorare a casa propria è molto diverso dal lavorare in uno spazio insieme ad altre persone, con le quali puoi confrontarti, avere uno scambio.

    PB – La presenza dello spazio espositivo ci ha anche permesso di non concentrarci unicamente sul nostro percorso, ma dare ad altri la possibilità di esporre i lavori e fare approfondimenti. Viviamo con preoccupazione il fatto che ci sia un gap fra la realtà e l’arte contemporanea,fra gli artisti e quello che succede. Credendo poco in un’arte autoreferenziale, ma più in una creatività che abbia uno sguardo politico e sociale, abbiamo desiderato che lo spazio espositivo ci supportasse in questo:coinvolgere gli altri.

    Rimanete tre artisti che lavorano individualmente, o c’è anche un momento in cui convergete sotto il profilo lavorativo?

    DM – Un progetto firmato a tre mani ancora non esiste,potrebbe succedere in futuro, magari. Certo non era la condizione sine qua non per iniziare a lavorare insieme. Ognuno procede con la propria ricerca anche se, lavorando insieme nello stesso spazio, spesso ci contaminiamo. Collettiva è invece la dimensione organizzativa e curatoriale dello spazio.

    Quale è secondo voi il valore aggiunto della condivisione dell’esperienza artistica piuttosto che la creazione individuale?

    DM – Il piacere di fare le cose uscendo dall’autoreferenzialità, o almeno provandoci. Avere questo spazio per noi è un’opportunità: depositiamo le idee, le facciamo decantare, ci confrontiamo con gli altri. Il valore aggiunto è sicuramente questo.

    Ditemi sinteticamente di voi, come artisti prima dell’esperienza di upper Art.

    PB – Ho cominciato nella prima metà degli anni ’90 con i graffiti, non ho fatto studi artistici, finché non mi sono iscritto a 30 anni all’Accademia Carrara. Mi sono occupato molto di Arte Pubblica. Tendenzialmente preferisco lavorare nello spazio pubblico, piuttosto che in quello istituzionale. Ultimamente sto lavorando molto con l’affissione, sia legale che illegale.

    DM – Anche io sono approdato tardivamente agli studi artistici; ho finito l’Accademia Carrara adesso, dopo essermi laureato in Psicologia. Ultimamente sto disegnando parecchio, e anche scrivendo. Gli ultimi due lavori cui mi sono dedicato sono storie illustrate. Quando faccio un lavoro amo puntare  lo spot su un argomento, su una questione, e analizzarla in maniera approfondita; poi che la  restituzione siano dei disegni, una fotografia, un video … è abbastanza irrilevante, perché non sono affezionato ad un medium specifico, mi piace cambiare spesso.

    Gli obiettivi che vi prefiggete.

    PB – Per quanto riguarda upper Lab sono quelli del coworking,muovere cose belle in città e condividerle. Perseguiremo questo  obiettivo. Per quanto riguarda upper Art intendiamo riportare alla realtà quella parte di arte contemporanea con cui siamo in contatto. I nostri percorsi vanno avanti in autonomia, ma sul piano curatoriale di certo c’è uno sguardo non edulcorato sul reale e sul sociale, e vorremmo proseguire in questa direzione.

    DM – Quando siamo entrati qui, l’intento primario era portare avanti la nostra ricerca, e ci siamo ritrovati a gestire lo spazio espositivo,mansione che non era contemplata inizialmente. Per questo, stiamo cercando di sintonizzarci su questa nuova esperienza, correggendo il tiro, muovendoci anche per prove ed errori, nel tentativo di far qualcosa di interessante.

    Come gestite lo spazio espositivo? Vi si può chiedere di esporre, operate una selezione oppure siete voi ad inviate gli artisti?

    PB – Ci stiamo muovendo in due direzioni: accettare le proposte dagli artisti, e proporre noi stessi di esporre a degli artisti che riteniamo interessanti, chiedendo loro di progettare qualcosa di specifico per lo spazio.

    Vi rivolgete in maniera privilegiata all’ambito locale?

    PB – Partiamo dai contatti che abbiamo qui, ma negli anni abbiamo sviluppato anche conoscenze altrove, e questo sta portando ad incrociare anche artisti stranieri. Ci piace anche vedere degli artisti durante il loro processo creativo, che vengano qui, sviluppino  il progetto e lo lavorino sul posto, in un arco di tempo da definirsi  a seconda dei progetti e dei soggetti coinvolti. In ogni caso vorremmo mantenere un gradi di accessibilità gratuito allo spazio.

    DM – Non ci dispiacerebbe sperimentare modalità di messa a disposizione dello spazio partendo dalla creazione di una sorta di bando.

    C’è un progetto cui state lavorando attualmente?

    PB – Quello di Artdate è un progetto che seguiamo a più mani, sia dal punto di vista progettuale, sia processuale. Il tema è la repressione.Dovrebbe essere il primo appuntamento di un percorso più lungo, che sfoci nell’approfondimento e non rimanga solo espositivo.

    In che rapporto siete con le istituzioni?

    PB – Come upper Lab ed upper Art praticamente zero. E’ vero che non ci siamo neanche mossi in questa direzione, perché desideriamo essere indipendenti. Allo stesso tempo, ci dispiace e ci fa porre delle domande il fatto che nessuna istituzione si sia mossa nei nostri confronti. Non dovrebbero essere sempre i cittadini ad elemosinare attenzioni da parte di Comuni, ma piuttosto sarebbe giusto che questi possedessero uno sguardo maturo tanto da cogliere le eccellenze, i problemi e le opportunità che ci sono. The Blank è l’unica realtà strutturata che si è messa in contatto con noi, non su nostra iniziativa.

    Ragionavamo con Mario Cresci sul fatto che Bergamo è candidata a capitale della cultura 2019.

    PB – Se si arriverà a quel traguardo, e glielo auguro, credo emergeranno solo  le realtà a cui ad oggi è stata data visibilità nel panorama culturale di questa città, che spesso corrispondono anche alle realtà di tipo economico. Non mi aspetto una grande vetrina per le iniziative indipendenti e più o meno giovanili.

    Una vostra lettura del ‘sistema arte Italia’.

    DM – Nel sistema arte Italia non mi sento integrato, diciamo che lo vedo da fuori. Posso dire che non si sente un grande supporto da parte di chi dovrebbe offrirlo. C’è tanto entusiasmo e tanta qualità, tante cose strutturate in cui però entrare è difficile se non hai la letterina o l’invito …ma quello è ‘normale’, non me la sento di fare paragoni con altre realtà, ma questa è la dimensione Italiana in senso più generale, mi vien da dire.

    PB – Il funzionamento del sistema dell’arte italiana, a mio avviso, è molto simile al sistema discografico: il fatto di investire sul musicista non è diverso dall’investire su un artista, ed è un fatto che rincorre i gusti dell’acquirente per andare nella classifica, in entrambi i contesti. Molte realtà underground o indipendenti hanno prodotto eccellenze,pur non avendo risorse. Spesso le cose buone non vengono dal main stream, ma dal sottosuolo, da gente mossa veramente dalle idee e dalla ricerca e non dal denaro … il fatto di affrancarsi dal tema soldi ti permette di fare una ricerca più autentica. Personalmente io ho sempre lavorato, parallelamente al  mio fare artistico, per necessità, ma anche perché questo mi affrancava dal dovermi mantenere attraverso l’arte, e questo mi ha permesso una ricerca libera. Ho la sensazione che in Italia sia più faticoso il percorso artistico di qualsivoglia tipo.

    Avete fatto delle esperienze all’estero? Punti di contatto tra il panorama nazionale e quello internazionale.

    PB – Ne ho fatte, ma non lunghe, due mostre, una in Finlandia ed una nei Paesi Bassi, ed effettivamente le open call funzionano diversamente: ho mandato la candidatura ed il giorno dopo mi hanno risposto, la prima volta per dirmi no, ma con molta cortesia, e mi ha scritto il Responsabile, la persona cui mi ero rivolto. Ho avuto la sensazione che ci fosse più serietà, e che guardassero meno a quello che era stato fatto prima, chi conosci, da dove arrivi. Circoscrivono l’attenzione alla sostanza, sulla proposta che porti. Noi avremo altri pregi … ma faccio fatica a farmeli venire in mente!

    The Blank Board | Intervista a 341 Factory
    [= The ===== Blank ==== Board === Intervista ===== a == 341 ==== Factory ==]



        [== LINK ==]

    In occasione di ArtDate 2013,
    Gianmarco Dodesini, Claudio Rossoni e Dino Gervasoni
    apriranno il loro studio in Via Trento 26, a Curno

    Domenica 19 Maggio dalle 16.30 alle 18.30

    THE BLANK BOARD

    un progetto a cura di Claudia Santeroni e Maria Zanchi

    Intervista di Claudia Santeroni
    Photo di Maria Zanchi

     

    Una presentazione delle persone che hanno dato vita a 341

    GIANMARCO DODESINI – Per 341 mi occupo di curare la parte fotografica. Il cammino attraverso cui sono arrivato a questo è un pò tortuoso; ho sempre avuto una grande passione per la fotografia, ma non l’ho mai studiata a livello accademico, anche se ho avuto la fortuna di lavorare con dei fotografi che mi hanno impartito le nozioni tecniche che mi mancavano. Ad oggi sono 10 anni che scatto, e posso dire che la mia evoluzione professionale ha inciso molto sulle scelte che ho fatto: un tempo studiavo Economia, ma il fatto di non avere mai trascurato il mio interesse per la fotografia, ad un certo punto ha fatto sì che diventasse addirittura il mio lavoro.

    DINO GERVASIONI – Sono nato in Perù, quando ero ragazzino suonavo con gli amici. Nel ’98 sono entrato all’Istituto Tecnico del Suono, e mi sono reso conto che nessuno si occupava di post produzione audio per i video, per cui ho cominciato ad interessarmene. Nel 2003 mi sono trasferito in Italia, ma non conoscendo la era difficile occuparsi sin da subito del mondo del suono … tempo dopo ho conosciuto Gianmarco e Claudio su un set di un corto girato da Claudio, e abbiamo iniziato a collaborare.

    CLAUDIO ROSSONI – Mi occupo della parte video, in particolare della regia e del montaggio. Da sempre ho la passione per il cinema e le arti visive, ma fino a qualche anno fa ero attratto solamente dalla parte concettuale e poco dagli aspetti tecnici. Durante gli studi universitari ho incominciato ad occuparmi di piccole produzioni video e cortometraggi, iniziando ad accumulare esperienza, ed é stato sul set di uno di questi corti che ho incontrato Gianmarco e Dino. Lì é nata l’idea di far diventare questa passione un lavoro.

    In sintesi, cosa è 341?

    G- 341 è un visual studio: cerchiamo di dare supporto sia a livello fotografico, sia a livello video, a vari soggetti che richiedono la nostra collaborazione, cercando al contempo di esserne contaminati. Con questo intendo dire che, oltre a dare importanza alla parte economica, tentiamo di occuparci di progetti dinamici, anche a basso budget, ma stimolanti. Nel nostro ambito il rischio è quello di fare cose molto ripetitive, che ti sottraggono dalla vena creativa, quindi la mostra propensione è impegnarci in progetti che ci piacciano realmente, mediando fra il lato creativo e quello commerciale.

    Parlateci degli esordi di 341.

    G – Dopo esserci incontrati sul set di questo corto girato da Claudio, abbiamo lavorato alla realizzazione di un video commissionatoci da un gruppo musicale. Se al corto collaboravano più persone, a questo video eravamo solo noi 3, e così abbiamo capito che potevamo lavorare insieme, senza supporti ulteriori. Successivamente ci siamo dedicati ad un evento di ciclismo, per il quale abbiamo prodotto un video promo, che è stato un buon trampolino di lancio, perché infatti ad oggi lavoriamo ancora molto con il mondo del ciclismo.

    Cosa vuol dire “341”?

    G – Le motivazioni della scelta del nome non le diciamo a nessuno, di solito rispondiamo che è il prefisso del Perù … ma non è vero!

    Cosa è questo spazio in cui lavorate, e come l’avete trovato?

    G- Si tratta dell’ex area Tesmec, ed in particolare la zona in cui ci troviamo era adibita a zone docce del personale ed appartamenti dei custodi. Tutto quello che si vede oggi è stato progettato da noi, per essere funzionale ai nostri scopi professionali, ma anche per piacerci, in modo che fosse un luogo piacevole in cui lavorare. Questo spazio è forse sovradimensionato per noi, ma ci è utile per fare capire la nostra qualifica di professionisti, è un buon biglietto da visita.

    Un lavoro importante cui vi siete dedicati ultimamente.

    D – Ci siamo occupati del videoclip di un gruppo musicale di Bergamo, i Glass Cosmos. E’ il classico esempio di progetto che ci coinvolge. Si è trattato di un lavoro oneroso, ed è stato impegnativo svilupparlo, infatti abbiamo lavorato due giorni ininterrottamente, un weekend intero.

    La vasta gamma di dispositivi elettronici esistenti, la loro grande reperibilità e semplicità d’utilizzo ha concesso a molto di dedicarsi alla fotografia ed al video. Quanto conta l’attrezzatura di cui si dispone rispetto all’idea?

    D – Secondo me niente: se hai una buona macchina ma non sai usarla, non ti serve a niente. Non importa di quale attrezzatura disponi, conta la tua abilità nel raccontare. Oramai le 5D e 7D spopolano, tutti le hanno, e sono macchine che se dai ad una persona che la sa usare ti fa meraviglie, se la dai ad un incompetente produce qualcosa di noioso ed inconsistente.

    G –Se hai un’ottima idea, ma la sviluppi male, risulterà un’ottima idea sviluppata male. Se hai un’ottima idea e la realizzi al massimo, magari diventerà un capolavoro. Quindi quanto è importante una e quanto l’altra? Ci deve essere compensazione fra i due aspetti. A volte ci sono idee talmente buone e forti che basta pochissimo per riuscire ad applicarle, senza bisogno di tecnica, ma è importante considerare che il grande regista è prima di tutto un tecnico, capace di occuparsi di tutto gli elementi che compongono il set.

    L’attrezzatura da sola non basta, ma una grande capacità tecnica ti permette di realizzare un buon prodotto, con una buona idea, anche partendo da un’attrezzatura poco professionale.
    Il Comune ha manifestato interesse nei confronti del Vostro lavoro?

    G – Noi ci troviamo qui come localizzazione, ma cerchiamo d’essere più cosmopoliti possibile, aprendoci a tutto ciò che è l’esperienza, senza limitarci ad un pubblico o ad una clientela locale. Passiamo ore ed ore qui a lavorare, quindi, potendo scegliere a cosa dedicarci, privilegiamo i progetti che riteniamo stimolanti, che raramente sono quelli che derivano dalla committenza comunale.

    I vostri obiettivi futuri?

    G – Vivere nella realtà italiana lavorando nel nostro campo è complicato; i nostri equivalenti francesi, ad esempio, sono lasciati molto più liberi di esprimersi, hanno uno Stato che supporta l’imprenditoria giovanile e sopportano molti meno problemi dal punto di vista burocratico. Noi però siamo qui perché ci crediamo, pensiamo che il rinnovamento debba partire da noi: cerchiamo di cambiare questa attitudine al mancato rinnovamento, diventando più dinamici.

    D – Vorrei che 341 diventasse un posto dove la gente può lavorare tranquillamente ai suoi progetti, sperimentando, facendo ricerca. Si producono troppe cose vecchie … In Italia il media è indietro, è più evoluto in Perù!

    The Blank Board | intervista a Marco Travali e Rita Casdia
    [=== The == Blank === Board ====== intervista == a === Marco === Travali === e = Rita == Casdia ==]



        [== LINK ==]

    In occasione di ArtDate 2013,
    Marco Travali e Rita Casdia inaugureranno lo studio di Marco Travali,
    in Via Jenner 16, a Treviglio

    Domenica 19 Maggio dalle 10.00 alle 12.30

    THE BLANK BOARD

    un progetto a cura di Claudia Santeroni e Maria Zanchi

    Intervista di Claudia Santeroni
    Photo di Maria Zanchi

     

    Parlateci degli studi, artistici o no, attraverso i quali siete approdati al mondo dell’Arte.

    Rita Casdia – Ho studiato al Liceo Artistico, poi Pittura all’Accademia di Belle Arti di Palermo. Successivamente, grazie a delle residenze d’artista che ho vinto, ho potuto vivere qualche tempo all’estero, in Francia ed in Australia, finché non ho deciso di rientrare in Italia per specializzarmi al Biennio di Nuove Tecnologie dell’Accademia di Brera, dove ho avuto occasione di conoscere Marco Travali. Non attribuisco però la mia formazione alle Accademie, quanto alla mia curiosità di leggere l’Arte nella sua complessità e molteplicità.

    Marco Travali – Ho frequentato il Liceo Artistico di Milano, poi l’Accademia di Belle Arti di Brera. Nel ’95 ho avuto la fortuna di partecipare ad un progetto televisivo innovativo, il primo di video giornalismo in Italia, “Sei Milano TV”; per me è stato un’esperienza importante, che mi ha portato ad occuparmi personalmente di audio-visivo, a vari livelli ed in varie forme, sviluppando sia una poetica personale, sia in cooperazione con altri artisti.

    Hai, o hai avuto, modelli, fonti di ispirazione, dei maestri?

    RC – Si, sicuramente ne ho avuti in passato e ne ho ancora adesso, ma non posso rintracciare in un’unica persona un modello, perché ogni periodo è stato contrassegnato da un artista di riferimento, Sophie Calle, Louise Bourgeois, Carol Rama, o registi come Alberto Grifi, che ho anche avuto modo di conoscere di persona. Potrei però anche citare Goya, Magnasco o Pontormo: sono stati e rimangono tutti dei riferimenti.

    MT – Non mi sento di incanalare i miei modelli in un unico settore, perché in generale sono affascinato da coloro che, in vari ambiti, dimostrano precisione, costanza, devozione, serietà ed impegno nel lavoro che svolgono; è atteggiamento che guardo con grande ammirazione.

    Su cosa si impernia, in sintesi, la tua ricerca?

    RC – Si basa su un’analisi concreta della crudeltà dell’intimo, perchè la possibilità di rendere visibile la sfera sentimentale/emotiva che domina la vita “razionale” di ogni essere umano è per me una sfida irresistibile. Il mio linguaggio si appropria di diverse tecniche, dal disegno al video, ed è apparentemente infantile: dietro una grafica semplificata, cela invece una stratificazione di significati, una pluralità di letture possibili.

    MT – I video che presenterò durante ArtDate sono rappresentativi della mia ricerca, al cui centro c’è l’essere umano e la sua interiorità. Per me è importante raccontare attraverso una forma ludica, creando quasi delle sorte di parodie. Ho sempre cercato di utilizzare codici espressivi diversi, perché ritengo sia limitativo legarsi ad un unico linguaggio. Molto spesso sono anche protagonista dei mie stessi video.

    Com’è nata l’idea di vivere questa esperienza insieme?

    RC – C’è una stima reciproca profonda, sia umana e sia professionale. Su questa base riusciamo a  capire velocemente di cosa necessita il nostro lavoro e come possiamo risolvere insieme i problemi che si presentano durante la produzione dei nostri progetti. Inoltre, c’è molta corrispondenza fra le nostre ricerche artistiche.

    MT – La mostra che si svolgerà durante ArtDate, coinciderà anche con l’inaugurazione dello spazio, ed è diverso tempo che lavoro alla sistemazione di questo luogo. Io e Rita ci conosciamo da molti anni, abbiamo avuto occasione di collaborare diverse volte, ed è lavorando insieme che si scoprono le assonanze; anche per questo sono contento di poter condividere con Lei questo momento.

    Punti di contatto e divergenze fra i vostri lavori.

    MT – L’apparente aspetto ludico delle opere di entrambi, e l’interesse comune verso la tematica del sogno, non solo intesa come esperienza onirica, ma come luogo possibile dove diverse realtà si intrecciano. L’esperienza del sogno come atteggiamento che intercetta significati nascosti  della realtà e intuizioni.

    Marco, cosa è questo luogo? Quali aspettative hai nei suoi riguardi?

    MT – E’ uno spazio espositivo ricavato al piano terra di casa mia. Nella vita mi occupo di comunicazione, quindi l’idea fondamentale è sicuramente che questo spazio sia una base logistica della mia agenzia, che attualmente ha un ufficio a Milano. Inoltre collaboro con molti artisti, realizzando progetti molto differenti fra loro, non solo come autore, ma anche come supporto alla realizzazione, essendo competente in materia di audiovisivo. Per questo, mi piacerebbe che questo potesse diventare un luogo a disposizione di chi ha un’idea da concretizzare. Come dicevo prima, apprezzo molto l’impegno che alcune persone profondono nei loro sogni e nel loro lavoro, e mi piacerebbe poterli sostenere, e non  solo nell’ambito puramente artistico. Ad esempio, di recente mi sono occupato della realizzazione dei flyer di un giovanissimo circense, uno sputa fuoco!

    Un lavoro cui vi state  dedicando attualmente.

    RC – Ci sono due lavori che mi stanno impegnando da oltre un anno, due video. Il primo è girato in Sicilia, luogo-origine del mio immaginario; si tratta della prima opera autobiografica cui mi dedico, e se girarlo è stato relativamente semplice perché avevo la macchina che fungeva da filtro, in fase di montaggio ho avuto grande difficoltà emotiva. Parallelamente a questo progetto, che sto chiudendo, sto lavorando alla realizzazione di un video in stop-motion, “Stangliro”, titolo che deriva da una parola inventata da me e che pronuncia il personaggio principale durante il video. È un progetto complesso dove ci saranno sulla scena un centinaio di mie bamboline in plastilina.

    MT – Sto lavorando ad un progetto video che segue la linea di quelli che esporrò qui durante ArtDate, sempre interpretato da me. Il tema è lo smarrimento generale che la società sta vivendo, la mancanza di prospettive. Non si tratta di una semplice proiezione, ma sarà integrata da una serie di oggetti che saranno presenti fisicamente, e questa linea narrativa è una sorta di inedito nel mio percorso. Il titolo è “Peso Piuma”.

    Cosa succederà qui durante Art Date?

    RC – Si metteranno a confronto i nostri due mondi e ci sarà modo di vedere una panoramica della nostra ricerca, attraverso alcune delle opere più rappresentative realizzate negli ultimi anni.

    MT – Si proveranno emozioni diverse in pochi metri quadri.

     

     

    The Blank Board | Intervista a Ferrario Frères
    [= The ===== Blank == Board ==== Intervista ===== a ==== Ferrario === Fr ==== res ==]



        [== LINK ==]

    In occasione di ArtDate 2013,
    I Ferrario Frères apriranno il loro studio
    in via Borgo Canale 9, Bergamo

    THE BLANK BOARD

    un progetto di Claudia Santeroni e Maria Zanchi

    Intervista di Claudia Santeroni
    Photo di Maria Zanchi

    Cos’è Ferrario Freres?

    F – Anni fa mi trovavo in Francia, sul massiccio centrale dei Pirenei, e ho visto passare questo camion con la scritta “Ferrario Frères”, che significa fratelli Ferrario. Nel 2000, quando io e l’altro componente del gruppo, abbiamo fatto la mostra alla Chiesa della Maddalena, abbiamo ripreso questo nome, e abbiamo dedicato l’esposizione a mio cugino, morto poco tempo prima, con il quale lavoravamo. Non ci interessa l’emergere della singola individualità, ci riconosciamo in questa etichetta, che ci accomuna: il nome e l’idea di lavorare in gruppo è nata dall’esigenza di ricostruire un insieme, questa identità che avevamo perso.

    Parlami della tua formazione.

    F – Faccio l’artista da quando avevo 14 anni. Ho fatto l’Accademia di Belle Arti a Bergamo, e ho una formazione prevalentemente pittorica. In seguito mi sono invece dedicato di più alla Fotografia, dopo ancora al video.

    Quale è il vostro indirizzo privilegiato di ricerca?

    F – La memoria, sicuramente, ma lavoriamo parecchio anche sull’istinto: negli ultimi anni abbiamo preso un viraggio spirituale, volontario od involontario. Ad esempio, attualmente stiamo sviluppando un lavoro sull’Australia; abbiamo conosciuto un antropologo, che ci ha raccontato la visione del mondo che hanno alcuni aborigeni, secondi i quali la il messaggio della vita viene trasmesso da animale ad animale, attraverso dieci passaggi di comunicazione che conducono all’uomo. Spesso i nostri progetti vengono rivoluzionati completamente in corso do’opera.

    Più che un indirizzo privilegiato di ricerca, c’è un’attenzione che deriva dall’esperienza del vivere.

    F – Esatto … anche il lavoro sull’ayahuasca nasce da un’esperienza personale, un viaggio in Brasile e l’incontro con questo rituale, finalizzato alla preparazione della bevanda. L’ayahuasca viene chiamata la ‘liana degli spiriti’, perché è potentissima, e una volta assunta di porta a fare un viaggio dentro te stesso, durante il quale devi solo accettare quel che succede, perché gli eventi sono al di là di te. Ricordo che lo Sciamano che conobbi in quella circostanza mi disse: “quando hai bevuto, non puoi più tornare indietro”. Ho provato delle sensazioni intensissime e, da allora, quando penso a cosa è la quotidianità in questa società, mi sento fuori luogo, se non avessi la dimensione dell’Arte in farei veramente fatica, perchè mi consente di ricollegarmi a quello che secondo me è il mondo sottile, e cercare di trasmetterne l’emozione. Per me è doveroso tentare di infondere questa emozione nel prossimo, anche per questo non comincio mai un lavoro se non è motivato.

    Voi lavorate come un collettivo, ma quelli di cui parli mi sembrano lavori che nascono dalla tua esperienza personale.

    F – Non facciamo questa distinzione; Mauri è la parte più analitica, io più borderline, quindi il confronto con lui mi è utilissimo per riassestarmi e rientrare nel mondo quotidiano.

    In alcune opere compaiono dei personaggi mitologici, dei Centauri.

    F – E’ un vecchio lavoro, risale a 15 anni fa. Allora addestravo cavalli nella bassa bergamasca, dove abitavo con i miei. Gli animali mi hanno sempre appassionato, e la loro vicinanza mi ha fatto riflettere sul connubio fra uomini ed animale, quindi li ho omaggiati con questo lavoro, che affronta la tematica della metamorfosi.

    Notavo che molti lavori mostrano una certa disinvoltura nell’impiego di tecniche diverse. Ce n’è una che attualmente prediligete, o preferite la commistione di linguaggi?

    F – Innanzitutto prediligiamo lavorare sullo spazio, ci piace l’idea dell’opera che cresce nel e per il luogo che la ospita; quello che facciamo è un lavoro di contaminazione. Uscire dallo schema che ci siamo prefissi, dal progetto iniziale, per noi è molto importante, perché ci permette di essere dinamici e non fossilizzarci. Trovo decadenti quegli artisti che si concentrano per tutta la vita su un modulo, perché l’intento dovrebbe essere quello di evolversi continuamente.

    Secondo te come mai capita che un artista si fossilizzi su una tipologia od un modulo?

    F – Questa speculazione che sta dietro all’Arte, cioè i collegamenti con galleristi, critici, collezionismo … è una cosa con la quale non mi sono mai misurato. Un artista non dovrebbero mai accettare di scadere in un circuito simile, ma tante volte il problema è che non hanno più niente da dire … e vengono triturati dal sistema. Per me lavorare per un motivo, avere qualcosa da dire, è il fondamento; è una visione un po’ romantica, ma penso ci sia bisogno di recuperare questo aspetto sensibile.

    Non temi che questa concentrazione sulle tue percezioni possa tradurre il Vostro lavoro in qualcosa di autoreferenziale?

    F – Si, forse in parte è autoreferenziale, ma questo deriva anche dal fatto che c’è una disattenzione sul mondo sensibile, spesso i giovani si perdono nelle disattenzioni che il mondo contemporaneo propina … molti lavori che facciamo sollevano questi interrogativi, ma educare attraverso l’arte è difficile, così come trasmettere delle sensazioni.

    Spesso lavorate site specific: come vi muovete per relazionarvi nello spazio, e quanti vi influenza?

    F – Ci influenza moltissimo, lo spazio ispira, suggerisce. Quando entro in un luogo cerco di cogliere l’impressione che mi trasmette, e quindi di lavorare su quella. E’ accaduto così alla Chiesa della Maddalena, ma anche alla Basilica di Santa Maria Maggiore.

    La tecnologia che spesso supporta le opere d’arte contemporanea, e la spettacolarità che ne deriva, a volte appare come un palliativo dei contenuti.

    F – Anni fa mi è capitato di vedere un lavoro, e di pensare che la traduzione del messaggio in chiave tecnologica fosse una stridente. Ci deve essere sempre un passaggio, un filtro: se lo forzi, hai vanificato il lavoro.

    Prima hai parlato del tuo viaggio in Brasile, vorrei che mi parlassi di un’altra esperienza importante.

    F – Sicuramente il viaggio che ho fatto in Siberia, durante il quale ho conosciuto un Padre che mi ha fatto percepire un tipo di spiritualità che non avevo mai colto prima.

    Quale è il sogno che vorreste realizzare attraverso le Vostre opere?

    F – Trasmettere sempre di più la parte sottile, sensibile. Questo viaggio intimistico è fondamentale per ritrovare te stesso, nel bene e nel male, per riuscire a mantenere puro il punto di vista, mantenere l’essenziale della vita, anche se devi dibatterti nel quotidiano, nei conflitti.

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    The Blank Board | intervista a Marco Travali e Rita Casdia