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    The Blank Board | Intervista a Domenico Pievani
    The Blank Board | Intervista a Domenico Pievani
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    photo @ Maria Zanchi

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    In occasione di ARTDATE 2014,

    Domenico Pievani aprirà il suo studio

    Sabato 17 maggio, dalle 09.00 alle 11.00

    Via San Lorenzo 22, Bergamo

    THE BLANK BOARD

    Un progetto a cura di Elsa Barbieri e Maria Zanchi.

    Intervista di Elsa Barbieri

    Foto di Maria Zanchi

     

    Domenico, in occasione di ArtDate 2014 presenterà un catalogo. Mi anticipa qualcosa di più?

    Il catalogo “Le regard se fait lieu/ Lo sguardo si fa luogo” nasce come testimonianza di quattro mostre  realizzate in spazi pubblici in Belgio negli ultimi tre anni. Ci tengo molto a presentarlo qui a Bergamo perché è stato realizzato con la partecipazione di più realtà culturali importanti e attive nella città. Questi  lavori hanno rappresentato per me l’occasione di riflettere sul concetto di installazione. Purtroppo è sempre più difficile capire quando  il concetto di installazione assuma il significato generico che indica tutto e niente e quando invece assume un senso che si lega a una trasformazione dell’idea dell’arte nel concetto di forma, della storia dell’arte, della scultura… ma anche alla trasformazione del rapporto con lo spazio, nel concetto di forma… Solo in questi casi “installare” assume un senso, che per essere colto richiede di fare un passo indietro nel tempo, cercando di mantenere un minimo di contatto con quelli che sono gli “antenati”. Già il lavoro di Kurt Schwitters era un’installazione, così come  lo studio di Brancusi . Quindi abbiamo tutta una serie di indicatori che ci possono riportare a un senso vero di quello che può essere il concetto di installare.

    Non trova che oggi “installazione” sia un termine usato con molta, forse troppa facilità?

    Sì, oggi è un termine abusato. Tutto è un’installazione, installiamo qualsiasi cosa… sembra che installare si risolva semplicemente nel mettere delle cose in uno spazio.   Al contrario penso che la dimensione dell’installare  sia significativa solo quando diventa un atto fondante. Fondare un luogo significa dare un carattere allo spazio. Allora lo spazio non è più una categoria indefinita e non è nemmeno una categoria spaziale in senso geometrico ma assume una valenza più pregnante e un carattere poetico.

    È in questa direzione che spinge il suo lavoro?

    Sì. Ho iniziato sempre più a legare al concetto di installazione  il concetto di composizione e  del disporre nell’accordare. L’installare per me diventa il disporre, l’attenzione cambia completamente perché mi trovo così, inevitabilmente, nella condizione di non poter essere slegato dallo spazio in cui agisco e con cui la relazione è immediata. Non posso avere un’azione, una riflessione o un’opera che si avviluppano su sé stesse ma devo lavorare in una dimensione aperta. Se noi consideriamo l’installare in questa dinamica allora l’installazione diventa interessante e credo abbia grandi possibilità dal punto di vista del linguaggio artistico e del suo sviluppo. Percorrendo questa direzione poi si fa strada il concetto di installarsi dell’opera. L’installarsi dell’opera all’interno dello spazio significa prima di tutto che bisogna avere coscienza del fatto che lo spazio è lo spazio esistenziale dell’opera stessa. L’installarsi dell’opera dunque può diventare un fondare un luogo.

    Penso a  Passaggi attorno e attraverso (per uno sguardo libero) , per esempio. Ha fondato un luogo?

    Sì. Era il 2012 ed ero stato invitato a partecipare a un festival, Les Voies de la Liberté, che si teneva presso il Centre culturel d’Ottignies-Louvain-la-Neuve. Passaggi attorno e attraverso  era un’installazione site-specific, con una serie di porte che poteva essere letta in due modi. Dall’esterno appariva come un unicum strutturato, però anche come un percorso che potesse essere attraversato dai visitatori. Avevo pensato a questo lavoro come a una dimensione in cui si aveva continuamente la possibilità di passare da una situazione all’altra. Nel percorso c’erano dei segni che diventavano limiti e marcavano una qualità attiva del movimento e della percezione, ma anche dei diversi modi di essere all’interno dello spazio.

    Per definizione il limite è qualcosa che chiude, per lei invece sembra non essere così. Sbaglio?

    Niente affatto. Sia all’interno del mio lavoro che del mio modo di pensare, io assumo il concetto di limite come qualcosa di assolutamente positivo e dinamico. Nella mia pratica artistica il limite serve, molto spesso, a marcare un momento di transizione da uno stato di cose a un altro o da uno spazio all’altro, da un sopra a un sotto, da un esterno a un interno… È un elemento da intendersi attivamente e positivamente che segna un passaggio all’interno di uno spazio da percorrere.

    Uno spazio che lei, artista, rappresenta? O che, nel suo caso, ripresenta?

    La differenza tra rappresentazione e ripresentazione, nel mio lavoro, è fondamentale. Non sono interessato a rappresentare qualcosa, ma a ripresentare qualcosa. Ripresentare è molto diverso, è un modo per essere all’interno del processo e lasciare che il processo continui anche nella dimensione della trasformazione. Penso che sia una possibilità, all’interno del linguaggio dell’arte, che ha portato tantissima ricchezza. Non che nella rappresentazione non ci sia qualcosa di interessante anzi, c’è comunque una ricchezza così come ad esempio una riflessione sulla realtà. Solo che è una riflessione di altro tipo, che si articola nella dimensione del distacco, completamente diversa da quella del coinvolgimento, della vita, in cui si inscrive ciò che si ripresenta. Sono attento a cogliere le differenze e credo che questa sia una delle più affascinanti, aiuta a capire il mio lavoro. All’interno della dimensione delle cose dunque se  prendo una pietra e la metto in uno spazio la sto ripresentando: la decontestualizzo, la inscrivo all’interno di un nuovo contesto- c’è dunque anche una dimensione linguistica che entra in gioco- e così la ripresento, rimettendo in gioco il principio di realtà.

    Che rapporto instaura con gli spazi in cui lavora?

    Entro in contatto con lo spazio a cui mi approccio prima guardandolo, per scorgere le qualità che ha già di per sé,  poi concentrandomi sulla sua percezione. Oppure, nel caso di spazi che dispongono di un genius loci che li rende luoghi, cerco di dialogare con questi aspetti caratterizzanti. Sia che le opere siano realizzate in situ, sia che nascano in studio per prendere vita nel momento dell’installazione, quello che per me conta è che il lavoro si nutra dello spazio, del luogo… e che vibri con esso.

    Cosa fonda uno spazio?

    Naturalmente l’opera. Gli spazi possono disporsi e contenere opere, anche di differenti misure, possono diventare cavità teatrali in cui accade qualcosa, ma è l’opera a fondarli. O meglio, a rifondarli, qualificandoli come luoghi della poiesis, luoghi in cui avviene un’azione. E quell’azione non è altro che l’opera d’arte, che segna, fonda e caratterizza uno spazio accadendo al suo interno. Questo è uno degli aspetti che maggiormente mi interessa e che attraversa tanto il mio lavoro quanto le mie riflessioni.

    Come nasce questo interesse?

    Questo interesse è nato all’interno di una riflessione che riguarda anche la storia dell’arte. Mi sono formato negli anni ’70 e ho vissuto in prima persona il momento dell’uscita dal quadro, un aspetto che mi ha interessato e che tutt’ora mi interessa come possibilità. Negli stessi anni anche nel campo della scultura stava succedendo qualcosa, si procedeva verso quella frantumazione della forma che esaltava la scultura come costellazione. Ecco, io mi muovo tra la possibilità di uscire dal quadro, uno spazio delimitato e chiuso da una cornice, e la possibilità di andare oltre il concetto di forma, riuscendo così a concepire lo spazio come dimensione aperta da inscrivere in un processo di continua trasformazione.

    C’è un motore che muove questo processo di trasformazione?

    Sì, la relazione delle cose che, per me, si riconduce al concetto di composizione. Se c’è una cosa che mi ha sempre seguito, non solo come interesse, ma anche come caratteristica del mio lavoro, è proprio il formarsi dell’opera all’interno di questo concetto. Naturalmente la relazione tra le cose è un aspetto fondante nel regno della composizione. Da questo punto di vista anche lo spazio è un elemento importantissimo, che può essere usato in modi diversi.

    A quali modi si riferisce?

    Beh, possiamo avere uno spazio come contenitore, dunque lo spazio come cavità teatrale, oppure uno spazio che si trova tra una cosa e l’altra, che potremmo considerare come un intervallo di sospensione. Quest’ultimo, verso il quale va la mia attenzione, non è uno spazio che divide, frantuma, allontana o, addirittura, costringe alla percezione di due o più individualità in una dimensione separata. Per me, al contrario, lo spazio come intervallo crea infinite possibilità di relazione.

    Come è possibile?

    È possibile perché questo spazio diventa un vuoto di possibilità estremamente ricco… permette infatti che si instaurino delle relazioni in cui le cose possono mantenere la propria identità pur concorrendo alla composizione di un unicum che le contiene. Naturalmente, per il mio lavoro, il concetto di vuoto è importante al pari di tanti altri… il vuoto permette il coinvolgimento, la contaminazione, ma anche l’essere e lo stare in uno spazio.

    Essere in uno spazio chiama in causa una presenza corporea. Un altro elemento che segna la sua pratica artistica.

    È vero. Nella mia formazione rientra un’avventura legata alla ricerca nel campo delle arti performative- ho lavorato, come studente, a due progetti di ricerca diretti da Jerzy Grotowski- che si lega, nell’ambito delle arti visive, alle opere che faccio e agli elementi che uso.

    Che elementi usa?

    Gli elementi che uso nel lavoro hanno una relazione molto stretta con l’essere umano. Letti costruiti in ferro per esempio, oppure molto spesso sedie. Non li utilizzo solo per un valore estetico, ma per il rapporto con il corpo, dal punto di vista della misura e dell’azione. Oltre al fatto che la dimensione di un letto o di una sedia è commisurata al corpo umano, entrambi questi oggetti presuppongono un modo di stare nello spazio, l’uno orizzontale e l’altra intermedio. Di riflesso questi aspetti chiamano in causa il movimento, un altro elemento fondamentale che si ritrova in tante mie opere. Senza il movimento sarebbe impossibile cogliere la relazione tra il corpo e lo spazio. Una relazione che recupera le radici corporee, ancora prima di essere pensiero o immagine, e che, proprio in quanto tale, mi permette di toccare alcuni elementi che riguardano l’universale, a prescindere dalla lettura che ne facciamo noi.

    Che cosa intende per radici corporee?

    Intendo esattamente come siamo fatti. Come ci insegna la cultura cinese, noi abbiamo in realtà quattro modi di stare nello spazio: stare sdraiati, sul piano orizzontale, stare  seduti, per terra o su una sedia, che è la condizione intermedia, stare in piedi, sul piano verticale. E poi c’è un quarto modo di stare nello spazio che è quello che ci appartiene: quello di essere in movimento. Tutti questi modi sono gli elementi basilari attorno ai quali lavoro. Quindi anche quando assumo degli oggetti lo faccio scegliendo appositamente quelli che stanno all’interno di queste possibilità. Con una particolare attenzione al movimento, che è la condizione indispensabile per la percezione di tanti miei lavori.

    C’è qualcosa d’altro che lega il suo lavoro a questi oggetti?

    Sì, c’è un altro aspetto molto importante ed è il concetto di azione. I pochi oggetti che uso, sono spesso  legati a precise azioni dell’uomo all’interno di uno spazio. La cosa che faccio è quella di cogliere e fissare in una sospensione questi oggetti. Ma non all’interno dell’azione, bensì quando l’azione è già avvenuta o è in procinto di avvenire. E qui dunque torniamo a quella situazione per cui il mio lavoro funziona sempre in rapporto a due stati di cose, due spazi o due aspetti che prevedono un passaggio. Il dinamismo, il dualismo… sono condizioni che ricerco negli oggetti che uso.

    Un oggetto che ricorre, come anche lei ha detto, è la sedia. Che significato ha per lei la sedia?

    La sedia è un oggetto che mi interessa moltissimo. Innanzitutto mi incuriosisce come dimensione di passaggio dalla posizione verticale a quella orizzontale, quindi come modalità di essere nello spazio. E poi mi affascina per il rapporto con le radici corporee. La sedia infatti è un corpo dal punto di vista architettonico, ma è anche il corpo, il nostro corpo. Nella storia dell’arte, nel teatro, nella danza, se presti attenzione, vedi spesso una sedia. Questo perché la sedia è protesi ma allo stesso tempo corpo.

    Lei fa un uso particolare delle sedie. Sbaglio?

    È vero, io le appendo. Quando appendo una sedia appendo un corpo. Per me appendere ha un senso molto particolare. Significa anche sospendere e quindi ritorna quella condizione di dualità che ricerco e perseguo con il mio lavoro. Naturalmente è una questione di emozioni… la cosa curiosa è che per me la sedia è un elemento che permette di toccare tante sfumature a livello espressivo ed emozionale. La sedia può essere qualcosa di divertente, di gioioso, di ridicolo, oppure di Drammatico. E poi l’altro elemento importante, che si ritrova in molti miei lavori realizzati con delle sedie, è il concetto di presenza e assenza.

    Me ne parli Domenico, sembra interessante e significativo.

    La sedia sta sul filo sottile che separa presenza e assenza. Una sedia può evocare una presenza tramite un’assenza e, viceversa, un’assenza tramite una presenza. Quando vediamo una sedia vuota in uno spazio per esempio.. possiamo pensare a un’assenza perché la sedia è vuota ma è solo attraverso la sua presenza che cogliamo l’assenza stessa.

    Il dualismo è costante. Come definisci gli aspetti che entrano in questa reazione duale?

    Non sicuramente opposti, credo sia un termine culturalmente abitudinario. L’opposto è qualcosa di molto strano, soprattutto per come lo gestiamo all’interno della comunicazione. Pensiamo sempre agli opposti come qualcosa che si contrappone. Invece, all’interno del mio lavoro, non è questa contrapposizione ciò che mi interessa. Mi incuriosiscono di più gli opposti all’interno di una dimensione circolare, che li contiene.

    Tesi, antitesi, sintesi

    Mi hai scoperto… (ride). Nel mio lavoro cerco di mantenere sempre questo tipo di tensione. Ovviamente nella consapevolezza che si tratta di una tensione impostata sulla curiosità, sulle domande, non su risposte certe.

    Oggi però il pubblico sembra ricercare più risposte certe e spiegazioni piuttosto che esperire.

    Purtroppo è vero, forse perché ci siamo disabituati a guardare. Crediamo di guardare, ma in realtà l’oggetto del nostro sguardo non è altro che l’immagine precostituita della cosa che guardiamo. Non riusciamo più a cogliere le cose nella loro essenza, nel loro essere in un dato tempo e in un dato spazio. Oggi non si cerca più di guardare in modo consapevole l’opera che sta davanti a noi,  ma si vuole sapere immediatamente cosa voglia dire. Io però credo che sia l’opera a dover parlare per prima e non chi l’ha fatta, o chi ne fa la lettura critica. Non nego che sia possibile e anche interessante disquisire attorno alle opere, però non è possibile farlo ancora prima di averne fatto esperienza. Quando un artista costruisce un’opera ha qualcosa da dire… a quel qualcosa bisogna avvicinarsi attraverso lo sguardo, l’osservazione e l’ascolto.. altrimenti si perde una dimensione dell’esperienza, si perde la relazione con il lavoro artistico.

    Come si pone il tuo lavoro rispetto a queste tue riflessioni?

    Io non penso affatto all’opera d’arte come qualcosa di puramente istintuale anzi, sono convinto che ci sia sempre un pensiero che proceda di pari passo con il lavoro. Credo però che siano sempre le opere, in relazione alle differenti pratiche di lettura, a provocare le riflessioni. Ed è così che deve essere per non correre il rischio di avere delle opere che altro non sono se non semplici messa in forma di idee. Le idee ci sono, ci devono essere e possono anche funzionare come motore primo. Nello stesso tempo però un’opera d’arte, è un processo per cui non ci si può limitare all’idea. Un processo in cui si può penetrare tramite le idee, ma che poi deve evolvere dialetticamente, deve trasformarsi. La trasformazione non può mancare… del resto noi stessi siamo sempre coinvolti all’interno di un processo di trasformazione. Averne coscienza è fondamentale.

    Interessante

    Si, solo così l’arte diventa un’avventura… altrimenti è una noia mortale (ride).

     

     

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