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    The Blank Board | Intervista a Virgilio Fidanza
    The Blank Board | Intervista a Virgilio Fidanza
    [== The == Blank = Board ===== Intervista === a === Virgilio == Fidanza ===]



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    In occasione di ARTDATE 2014,

    Virgilio Fidanza aprirà il suo studio

    Domenica 18 maggio 2014 dalle 10.00 alle 12.00

    Via Spiazzi 6, Albino

    THE BLANK BOARD

    Un progetto a cura di Elsa Barbieri e Maria Zanchi.

    Intervista di Elsa Barbieri

    Foto di Maria Zanchi

    La creatività sta nello sguardo incantato di ognuno.

    Virgilio Fidanza

     Virgilio, sei un fotografo di professione. Cosa deve avere una fotografia per catturare lo sguardo?

     La fotografia per me è una questione semantica. Non pratico la fotografia documentativa, la fotografia che mi interessa ha piuttosto una capacità evocativa. Come la poesia. Trovo il linguaggio poetico estremamente libero,  non come il linguaggio quotidiano dove si è costretti a dire nelle forme prestabilite proprie del linguaggio.

    Che cosa evocano le tue fotografie?

    Una fotografia è tale se evoca, diversamente non funziona universalmente. E in quanto tale non deve mai mostrare qualcosa per quel che è. Il bicchiere, ma non quel bicchiere, altrimenti restiamo nella nostra, importante, ma ristretta sfera affettiva. Deve piuttosto evocare quella cosa tramite una sostituzione simbolica che esca dalla sfera personale dell’autore per invadere l’universale. Il mio ultimo lavoro, +corpiriuniti, per esempio, realizzato nell’ex complesso dell’Ospedale Riuniti di Bergamo, si articola in diverse sezioni, o meglio corpi. Uno di questi è dedicato alle sedie su cui innumerevoli persone hanno atteso. Chiunque le guardi proietta in esse una quantità infinita di immagini. Immagini che non possiamo cogliere nell’immagine, ma che vengono evocate in noi.

    Evocano la memoria? Una memoria condivisa?

    Assolutamente no. La fotografia non funziona come impronta della forma, o meglio non è assolutamente riducibile solo a quell’aspetto.  Evoca il vissuto, rimanda al vissuto. E il vissuto stimola la vita, non la memoria. Quella vita che modifica continuamente i nostri ricordi.

    Cosa è dunque una fotografia, se non un’impronta della forma?

    Per me la fotografia è un medium che fissa un particolare selezionato che restituisce, costruendola, una porzione di realtà. Reale (come trovato) o finto (come costruito) che sia il quel particolare. Perseguendo la neutralizzazione del mezzo, che è condizione per giungere all’universale, in gioco restano sempre forma e impronta. Cambia solo la relazione. Per me una fotografia funziona solo se è forma dell’impronta. Di ogni soggetto mentre esiste solo un’impronta possono esistere molte forme di quell’impronta. Il problema è capire quale di queste noi scegliamo o costruiamo. Le sale d’attesa di cui parlavo poco fa per esempio. Io entro in relazione con lo spazio, vale a dire porto là il mio corpo, e mentre scelgo come rappresentare le sedie, penso contemporaneamente al loro significato/valore simbolico. Così, nell’apparente neutralità dell’immagine, ogni fruitore potrà avviare un’indagine sul vissuto umano: “quante persone si sono sedute?”, “con che stato d’animo?”, “con quali gesti?”.

    Hai accennato alla finzione, l’hai evocata. Che cosa intendi?

    La fotografia funziona solo nel reale, e la finzione è anch’essa reale, come il teatro. L’importante è che rimandi alla realtà, al vissuto. Una maschera per esempio può avere valenza positiva se è usata per gioco, una valenza negativa se invece è usata per inganno, in entrambi i casi non è l’impronta della maschera che muta ma l’uso che ne facciamo. Allo stesso modo funziona il linguaggio poetico o letterario nei confronti della maschera-linguaggio. E altrettanto può fare la fotografia. Non contano gli attribuiti che convenzionalmente le si danno, positivo e negativo, vero o finto, tutto dipende dalla funzione che le attribuiamo.

    Per questo hai scelto di utilizzare in alcuni tuoi lavori, “mezzo- corpo-immagine” esposto alla Wave Photogallery, per esempio, le fotografie mosse?

    Le fotografie mosse non nascono da una scelta estetica. Alle fotografie esteticamente belle ho sempre preferito quelle capaci di rappresentare il vissuto con le sue emozioni. Le fotografie scattate in movimento, nel viaggio in auto, sono quelle più vicine a noi, che guardiamo sempre più il mondo mentre siamo in movimento, perché il nostro corpo è in perenne movimento.

    Parlami di questo progetto

    È una serie di cinquanta immagini, realizzate tra il 2003 e il 2013,  iniziata nei miei spostamenti tra Bergamo e Brescia per raggiungere l’Accademia. In gioco ci sono tre corpi: quello tecnologico, la fotografia/automobile,  il corpo e l’immagine. Quando viaggiamo, liberi di muoverci ma sempre all’interno di un percorso prestabilito, cambia la dimensione spazio-temporale. E di conseguenza cambia il nostro corpo e con esso anche lo sguardo,  perché riceve nuovi stimoli, un modo diverso di rapportarci al mondo.

    Che cosa intendi per ‘percorso prestabilito’?

    Penso alle strade. Le rete stradali sono libere, ognuno sceglie quale strada percorrere. Ma dopo averla scelta è obbligato a seguirne il tracciato imposto.

    Cosa fai per evitare i percorsi già decisi?

    Sono cresciuto con la convinzione di dovermi impegnare a livello sociale, è tipico della mia generazione. Eppure la mia indole solitaria è uscita allo scoperto. Mi sono ritagliato il mio spazio, all’interno della natura, dove posso vivere con i ritmi del ciclo naturale e godermi tutto ciò che esiste. È fondamentale mettersi e rimettersi sempre in gioco.

    È questo che insegni ai tuoi studenti?

    Si. È importante che sappiano mettersi in gioco. Perché lo apprendano chiedo loro un esercizio tosto, che tutti dovremmo fare. Chiedo loro di autoritrarsi, così sono costretti a chiedersi chi sono senza l’aiuto della tecnica, la “medicina” che tutti usiamo per rispondere al sistema.

    Che cosa è per te la tecnica?

    È uno strumento fine a se stesso che deresponsabilizza. Lo scorso anno ho tenuto un corso in Cina, al Politecnico di Beilun, e là mi sono reso conto di come ormai l’uomo confonda le immagini tecnologiche con il mondo. Il titolo del corso era “Dall’albero mitologico all’immagine tecnologica”. È stato un percorso che mi ha permesso di portare alla luce il ruolo dell’immagine tecnologica nella contemporaneità. L’immagine tecnologica nasce come strumento capace di rendere comprensibili i testi e mantiene un legame con le immagini tradizionali, quindi anche con il loro carattere magico, perché circolare, come il ciclo naturale. Seppure la sua impronta non dipenda dall’abilità dell’uomo ma è generata da un medium tecnologico, l’uomo si aggrappa ad essa per restare in contatto con il mondo magico. Così facendo però nell’uomo cresce la convinzione errata che dal momento in cui è in grado di produrre immagini (lui o l’apparato tecnologico?) poi sia anche capace di decifrarle.

    Che rapporto esiste tra fotografia e tecnica?

    La fotografia non è tecnica, non è riducibile al solo fatto tecnico, io mi considero un “animale non tecnico”. Il perché è molto semplice: la fotografia dovrebbe avere una finalità espressiva rivolta all’uomo, non a se stessa come la tecnica. Oggi tutto ruota intorno alla tecnica, la politica per decidere guarda all’economia, che a sua volta guarda alla tecnica, e la tecnica è priva di finalità. Vivere, guardare e pensare non possono e non potranno mai essere soppiantati dalla tecnica. È una questione vitale. Nello stile di vita sta il mio atteggiamento verso il mondo. Uno stile autentico perché praticato. Poi c’è uno stile mercantile. Ma non me ne curo perché prescindere da me stesso per obbedire alle logiche del mercato mi è impossibile. Quanto meno nella fotografia d’autore. Ecco perché preferisco muovermi ai margini, verso il profano.

    Che cosa intendi per profano?

    Intendo dire che il mio percorso creativo è decentrato rispetto alla sacralità consacrata dal mercato. Vedo i giovani e mi accorgo delle loro difficoltà a pensare. Non perché non ne siano capaci, ma perché rispondono al sistema. Non va bene. Bisogna profanare questo percorso, spostarsi, andare oltre, per restituire la creatività. Quella vera, quella che sta nella periferia dell’impero e nello sguardo incantato di ognuno di noi.

    Abbiamo tutti questo sguardo incantato?

    Assolutamente si. È solo che  non lo sfruttiamo. Le immagini, le troppe immagini, agiscono su di noi come schermi che ci impediscono di vedere il mondo. Me ne sono accorto in Cina ma è così ovunque. Ormai ci muoviamo in funzione delle immagini, l’atteggiamento è da posa fotografica. L’immagine attesta la nostra identità. Sbagliato! L’immagine può evocarla, non rappresentarla. Altrimenti nessuno più si mette in gioco, rischia e azzarda.

    Tu hai rischiato?

    Si. ci provo, a mettermi costantemente in gioco. Ogni giorno in questo spazio che mi sono ricavato nella natura. Di fronte a me ho il mio unico riferimento: il ciclo vitale. Se non ci si mette in gioco, l’esistenza rimane un’occasione perduta. E le mie fotografie nascono e vivono di questi stimoli.

     

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