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    TB BOARD | INTERVISTA A IRENE FENARA
    TB BOARD | INTERVISTA A IRENE FENARA
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    INTERVISTA A IRENE FENARA
    ELISA MUSCATELLI

     

    Elisa Muscatelli – Come descriveresti la tua pratica artistica a un pubblico che si approccia a te per la prima volta?

    Irene Fenara – Nel mio lavoro ho sempre cercato una visione, partendo dal tentativo di comprendere la visione stessa. La visione è una costruzione culturale che si impara e si allena oggi sempre più velocemente con la circolazione e saturazione delle immagini. La storia della visione poi si  lega inevitabilmente alle tecnologie ottiche visuali che si innestano sui nostri occhi e che ne trasformano le capacità di vedere e quindi anche di pensare. Mi interessano moltissimo i dispositivi, qualsiasi dispositivo che aggiungiamo alla nostra visione determina un modo di vedere in maniera differente e che a volte crea delle alternative. Nel tempo ho sentito la necessità di appropriarmi degli strumenti della nostra contemporaneità, dei dispositivi della visione, delle tecnologie che orientano e determinano il nostro modo di vedere, arrivando a utilizzare immagini provenienti da videocamere di sorveglianza. Uno strumento non è mai una sola tecnologia, ma rappresenta un modo di pensare il visibile.

    EM – Molti dei luoghi ripresi  attraverso telecamere di controllo appaiono come paesaggi aleatori. La bassa qualità di ripresa, l’angolazione e le luci creano immagini a volte surreali, dando vita anche a equivoci percettivi, come in MEGAGALATTICO (2017), dove luci di server di computer appaiono come stelle lontane di una galassia. Cosa è che viene messo in mostra e cosa celato?

    IF – Il più delle volte non accade niente di speciale, si tratta per lo più di un mondo fermo e vuoto quello che si vede attraverso le videocamere di sorveglianza private, non ci sono molti esseri umani perché trattandosi di videocamere private appunto, spesso le persone una volta arrivate a casa le spengono. Diventa interessante per me provare a capire il motivo per cui una videocamera è stata messa in un punto piuttosto che in un altro. A volte riuscire a vedere la spiegazione è piuttosto immediato, ma molte altre no. A volte ci sono luoghi d’interesse costanti in base ai paesi dove vado, in Inghilterra per esempio ha trovato sotto controllo molti giardini interni in Cina molti parcheggi, e in California invece svariati cartelli pubblicitari LED. Poi può capitare che una videocamera invece venga accidentalmente spostata da un colpo o da una folata di vento e rimanga a fissare una parete bianca per anni. A volte però qualcosa accade e sembra incredibile solo perché sono lì che la sto guardando, forse non sarebbe così stupefacente se succedesse nella normalità di un momento qualunque, lontano da ogni tipo di sguardo, sarebbe soltanto qualcosa che succede a volte come il volo di un uccello, e una parte della mia ricerca è un vero e proprio birdwatching tecnologico di videocamere di sorveglianza in cui vado a collezionare questi momenti straordinari.

    EM –  Oggi ci sono avvisaglie della migrazione dell’arte verso un terreno virtuale, nelle tue opere c’è un procedimento per cui il reale passa per un canale virtuale a circuito aperto – le telecamere di controllo – per poi ritornare in real life attraverso l’esposizione tramite stampe fotografiche, proiezione su monitor o luoghi fisici.

    IF – Purtroppo o per fortuna non posso fare a meno della concretezza dell’immagine, anche quando lavoro esclusivamente in digitale. Sono abituata a vivere con le immagini stampate su supporti casuali di prova o giusto per averle tutti i giorni sott’occhio nello studio. Spesso penso a quanto sia delicata la fotografia,  a volte sento la necessità di maltrattare le superfici, di toccarle, tagliarle accartocciarle o buttarle in un angolo, per poi vedere cosa sopravvive vivendoci assieme. Dare corpo a un’immagine significa per me portarla su un’altra dimensione, una dimensione più vicina alla nostra e rendere concreta un’immagine può fare in modo che essa viva assieme a noi, corpo tra i corpi e penso che solo così possiamo comprenderla appieno nella nostra esperienza.

    EM – Spesso i  tuoi occhi diventano quelli delle tecnologie di controllo che scegli, il cui movimento è programmato e limitato. L’opera diviene una sintesi tra ciò che vuoi guadare tu e ciò che la macchina è programmata a controllare. Spenti tutti i devices e senza la mediazione dello schermo, quale è la cosa che preferisci osservare?

    IF – In realtà la macchina mi sembra quasi più libera, anche se è limitata in un’infinità di altre cose, come i limiti tecnici o i limiti legati a una funzionalità specifica e delimitata. Mi sembra più libera perché non ti permette di lavorare su un’idea estetica già settata, ma ti consente d’indagarne una nuova. Quello che mi interessa degli strumenti tecnologici meno usuali è che possono davvero aiutarci a dissuadere il nostro atteggiamento umano, a guardare le cose in una maniera in cui siamo sempre stati abituati a vederle. In ogni caso mi interessano i paesaggi, visti con i miei occhi o i loro.

    EM – In Accademia inizialmente ti sei approcciata alla scultura, staccandoti sempre di più dalla materializzazione dell’opera-oggetto verso mezzi liquidi come il video. C’è qualcosa che è rimasto del tuo approccio scultoreo e che influenza il tuo modo di lavorare e vedere attuale?

    IF – Può essere che la mia necessità a relazionarmi costantemente con lo spazio sia qualcosa che nasce sicuramente dall’aver studiato scultura, ma anche dal fatto di aver avuto la possibilità di lavorare all’interno di uno studio,  di uno spazio personale adibito al lavoro molto molto presto, e, nonostante possa sembrare bizzarra la necessità di avere uno studio lavorando io spesso in remoto e in digitale, sento comunque sempre l’urgenza di proiettare nel mondo fisico e tangibile le mie ricerche che poi si concretizzano spesso in allestimenti anche installativi.

     

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