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    The Blank Board | Intervista a Matteo Rubbi
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    photo @ Maria Zanchi

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    In occasione di ARTDATE 2014

    Matteo Rubbi condurrà un Walking Talking Studio Visit

    Domenica 18 maggio 2014, dalle 10.00 alle 12.00

    Via Colombo 4, Albano Sant’Alessandro

    THE BLANK BOARD

    Un progetto a cura di Elsa Barbieri e Maria Zanchi.

    Intervista di Elsa Barbieri

    Foto di Maria Zanchi

     

    Elsa: Ciao Matteo, piacere!

    Matteo: Ciao Elsa, piacere mio!

    Matteo: tu cosa studi Elsa?

    Elsa: studio visual cultures.

    Matteo: prima hai fatto storia dell’arte?

    Elsa: no, lettere. E prima ancora il liceo socio psico-pedagogico. Ho cambiato idea molte volte.

    Chi intervista chi? … Matteo, ora tocca a me!

     

    Matteo, dopo aver parlato di me, raccontami il tuo percorso formativo. 

    A 14 anni ho scelto di iscrivermi all’istituto tecnico, senza avere la minima idea di quale sarebbe potuto essere il mio futuro. Mi piaceva disegnare e mi appassionava l’arte eppure ho scelto qualcosa che mi sembrava più sicuro. Dopo questo percorso però ero ancora pieno di curiosità e di voglia di approfondire l’arte. Non sapevo se come artista, storico dell’arte o cos’altro, volevo soltanto stare in quel mondo. E così ho provato a fare l’esame di ammissione all’Accademia di Brera.

    Perché l’Accademia a Milano e non a Bergamo?

    Perché volevo vivere una nuova esperienza, conoscere un’altra città. Milano per me rappresentava qualcosa di sconosciuto: ero in qualche modo attratto dalla dimensione internazionale della città.

    Capisco… Torniamo a Brera, alla tua esperienza accademica.

    L’inizio è stato difficile, in quegli anni non sapevo nulla di arte contemporanea. Al secondo anno mi sono iscritto al corso di Luciano Fabro e la situazione è migliorata. Quando poi è andato in pensione sono passato al corso di Alberto Garutti, che mi piaceva molto e di cui seguivo già le lezioni.

    Cosa ti hanno trasmesso questi due professori?

    Alberto Garutti mi ha insegnato ad essere critico nei confronti del lavoro, a considerarlo con serietà e rispetto. Mi ha spinto a pensare di più, ad osservare di più, a portare ad estreme conseguenze il lavoro, a non dare per scontato nulla. Le sue lezioni erano soprattutto discussione e confronto sulle opere; tutti partecipavano e tutti dicevano la loro. Poi mi sono reso che questo tipo di messa in questione di sé stessi e del lavoro non capita così facilmente in una Accademia… Questa attitudine al confronto è nata lì ed è ancora indispensabile. Di Luciano Fabro ricordo le bellissime lezioni, gli incontri che organizzava nel suo studio, circondati dalle sue opere, e che nel suo ultimo anno di insegnamento ha creduto in me come pittore incoraggiandomi a fare una esperienza Erasmus in Belgio, a Gent.

    Deve essere stata un grande occasione per te.

    Si. Non appena sono arrivato a Gent ho iniziato a visitare musei e mostre in Belgio e dintorni tra Francia, Germania, Olanda e Inghilterra. Una scorpacciata. Ho dipinto moltissimo, come non è stato possibile fare a Brera, incontrato gente da mezzo mondo, imparato un po’ di inglese… Una grande occasione, come hai detto.

    Cosa è successo poi, una volta finita l’Accademia?

    Finita l’accademia è iniziata la fase più difficile. Molti di noi, studenti dell’ultimo anno, siamo confluiti nell’esperienza milanese dell’Isola dell’Arte, oggi Isola Art Center, che aveva sede allora alla Stecca degli Artigiani. Negli anni in cui ancora non esistevano collettivi o spazi di sperimentazione, quei pochi che esistevano erano di difficile accessibilità, l’Isola è riuscita ad affermarsi come spazio di sperimentazione, di incontri e di collaborazioni tra giovani artisti ma anche con artisti già affermati e importanti.

    Una cosa che sembra contraddistinguere la tua pratica artistica è la presenza di relazioni. È così?

    Credo che l’artista viva necessariamente di relazioni, di confronto e di scambio continuo. Trovo importante che il lavoro sia l’occasione per creare delle relazioni nuove, che prima non esistevano. Mi interessa che il progetto di una mostra possa essere condiviso e prendere forma nel luogo in cui nasce. L’idea di una mostra “standard”, imperturbabile ovunque mi mette a disagio. Penso all’intramontabile white cube per esempio, un formato per cui una mostra funziona allo stesso modo a Tokyo, a New York, a Parigi e a Bergamo, ma che mostra tutti i suoi limiti quando diventa un paradigma assoluto. L’artista può decidere di affrontare un progetto fondandolo nel luogo in cui interviene coinvolgendo il contesto, che è fatto di istituzioni, associazioni, dell’economia locale, delle industrie, della sua storia.

    Un puzzle?

    Un puzzle di tante possibilità molte delle quali nascoste. In una mostra chiamata “I sette arcobaleni”, da me ideata per Careof nel 2008, ricordo come il progetto abbia passo dopo passo coinvolto, partendo dalla sede della Fabbrica del vapore, tutto il quartiere: la Piccola scuola di circo, alcuni negozi gestiti da cinesi, una sala da ballo, la Bticino, il circolo ex combattenti di Porta Volta, il teatro Verga. Questa mostra ha in messo in relazione tutti questi luoghi, i loro abitanti e frequentatori attraverso le opere degli artisti e la loro presenza. È stato un modo di valorizzare quello che c’era mettendolo in discussione.

    Come metti in discussione quello che già c’è?

    Tentando di combinare le cose e di creare un intreccio possibile. Molto spesso tutto viene da sé, come se fosse naturale. Altre volte invece no, ma fa parte del gioco. In ogni caso il lavoro ne esce arricchito, come dopo un viaggio. Alighiero Boetti diceva: “Per me non è un problema, specialmente adesso, se quello che faccio è arte oppure no, mi serve per vivere, per vivere un’avventura”. Mi piace pensare al mio lavoro come a qualcosa che può sorprendere anche me, che generi domande, più che risposte, che si allontani naturalmente dalla destinazione prevista. E nel mio caso, mi non piace essere da solo in quest’avventura.

    Che cosa intendi quando dici che non ti piace essere solo?

    Nel momento in cui il lavoro consiste in un cantiere aperto, diventa importante coinvolgere altri spazi, o diversi tipi di pubblico, invitare altri artisti e non, figure professionali diverse tra loro. Il lavoro deve essere sufficientemente aperto perché tutti possano entrarvi e sentirlo come proprio.

    Che caratteristiche hanno i tuoi progetti?

    I miei progetti nascono da un incipit semplice, di facile accessibilità e cerco sempre di pormi dei “paletti” che valorizzino idee, energie e direzioni diverse, in modo che il lavoro possa passare di mano in mano.

    È stato così con Bounty, il lavoro realizzato alla GAMeC?

    Era la mia prima mostra personale in un museo ed era nella mia città. In quell’occasione abbiamo costruito un pezzo di nave, il Bounty appunto, insieme all’ABF, Azienda bergamasca di formazione di Bergamo e Curno, che ha dimostrato una straordinaria motivazione nel mettere a disposizione le proprie competenze professionali. Il museo è rimasto aperto al pubblico durante gli workshop tenuti da studenti dell’ABF, a cui tutti potevano partecipare. Il risultato è stato sorprendente, da tutti i punti di vista.

    Hai trasformato il museo in un laboratorio.

    Non solo in un laboratorio, ma anche in un luogo in cui diverse realtà della città si sono incontrate e hanno collaborato alla costruzione della mostra. Era come se dentro il museo fosse nata dal nulla una strana comunità composta da artisti, pubblico, studenti di diverse scuole e dai loro insegnanti; anche il giornale della città ha collaborato con un progetto, e persino un fisico delle particelle che lavora al CERN. Insomma il discorso della mostra personale è andato davvero oltre sé stesso diventando più ampio, allargandosi alla città.

    Più ampio ma anche pubblico.

    Io sono cresciuto considerando l’arte come un fatto soprattutto pubblico quindi di tutti. Il museo è un luogo pubblico. E il mio progetto alla GAMeC mirava a valorizzarne questo aspetto. Mi fa paura l’idea di un’arte vista e raccontata da soli artisti e addetti ai lavori. I musei dovrebbero diventare spazi aperti e vivi che si confrontano quotidianamente con la realtà e con la sua complessità. Ma questo sta già succedendo.

    Sei riuscito a portare avanti questa tua pratica anche oltreoceano?

    In America, ho lavorato in un museo, l’ASU Art Museum, a Tempe, nell’area urbana di Phoenix, Arizona. In quel momento la città stava vivendo una vera e propria “rivoluzione”. Il centro della città, abbandonato a sé stesso per anni, è stato ripreso in mano dai cittadini. Cinque persone in tutto hanno innescato una reazione a catena che ha portato un intero quartiere a rinnovarsi completamente attraverso bellissime iniziative culturali. L’arte ufficiale era lontana, ma non troppo, a 6 ore di macchina, a Los Angeles, ma quello che stava accadendo nella periferica Phoenix è diventato per me il vero centro di interesse. Così come mi ha molto colpito la storia delle miniere, il mio primo contatto con le comunità di nativi americani e la loro cultura, il paesaggio mozzafiato…

    Come ti sei relazionato al luogo e agli abitanti?

    La mia residenza è cominciata dentro una piccola cucina, che si trovava all’interno del museo a fianco della biglietteria, usata come sgabuzzino. Inizialmente la usavamo io e la mia ragazza, perché non avevamo un luogo dove cucinare, poi, giorno dopo giorno l’abbiamo trasformata in un laboratorio culinario aperto al pubblico. Ogni due settimane si teneva un “Magic Friday”, un pranzo durante il quale tutti coloro che lavoravano nel museo potevano partecipare cucinando in loco o portando qualcosa da casa. Il progetto si è poi allargato a tutta l’area urbana: ho cominciato ad invitare persone che incontravo, e ho coinvolto le comunità di stranieri e rifugiati per avere piatti sempre diversi e che in qualche modo raccontassero la complessità della città. Ricette sud-sudanesi, irachene, etiopi, messicane, hanno cominciato ad arricchire le pareti della cucina che di pranzo in pranzo si trasformava in un piccolo museo delle culture presenti nella Valle del Sole. Ho coinvolto anche gli artisti con me in residenza, come per esempio Miguel Palma, a dare vita ad una collezione permanente di opere per la cucina. E verso la fine, quando maturava l’idea di far diventare questo appuntamento fisso e non legato per forza alla mia presenza, ho iniziato a coinvolgere cuochi dalle comunità indiane che avrebbe cucinato per un giorno nel museo. Ho così conosciuto cuochi Navajo, Tohono O’Odham, Apache…

    Che ne è stato del progetto dopo il tuo rientro in Italia?

    Purtroppo si è interrotto, o almeno credo, non ho più notizie.  Forse c’era bisogno di più tempo perché il progetto si consolidasse e si sostenesse da sé, ma ho sempre la speranza che possa riprendere prima o poi!

    In Italia ti dedichi anche ad un progetto molto importante. Cosa mi dici di Cherimus?

    Cherimus è un’associazione d’arte nata nel 2007 a Perdaxius, un paese sardo, su iniziativa di tre amici: Emiliana Sabiu, Marco Colombaioni e me. La nostra attività fin dall’inizio mirava a far incontrare l’arte contemporanea con i paesi del Sulcis, coinvolgendo artisti e curatori da tutto il mondo, come per esempio Alfredo Jaar, Lucy+Jorge Orta, Zarina Bhimji, Bartolomeo Pietromarchi e Simon Njami, invitati a confrontarsi con un territorio culturalmente ricchissimo come il Sulcis, ma digiuno fino a quel momento di arte contemporanea. Nel corso delle prime conferenze e workshop aperti a tutti, artisti e curatori sono stati in qualche modo obbligati a reinventare o mettere in discussione il proprio modo di fare o raccontare l’arte per rapportarsi ad un pubblico di non addetti ai lavori ma molto curioso e interessato.

    So che avete realizzato importanti progetti.

    Uno dei progetti più importanti è stato Chadal, una cooperazione tra Italia e Senegal che ha portato alla costituzione di un gruppo musicale sardo-senegalese, alla realizzazione di un disco e all’organizzazione di  una tournée tra Dakar, la Sardegna e Milano. L’ultimo progetto che abbiamo realizzato in ordine di tempo invece si chiama La biblioteca fantastica, nato da un bando della fondazione Vodafone e fondazione CON IL SUD. Abbiamo invitato degli artisti provenienti dai paesi di origine delle maggiori comunità stranieri presenti in Sardegna a lavorare con ragazzi di sei scuole medie all’interno di quattro piccole biblioteche del Sulcis, per provare a farle rivivere, a trasformarle in uno spazio dove si può inventare di tutto. Questo percorso si è concluso con la realizzazione di quattro cortometraggi realizzati dai ragazzi e dagli artisti durante otto mesi di intenso lavoro.

    Che rapporti esistono tra questi progetti e il sistema dell’arte?

    Questi progetti pur nascendo in un contesto periferico sono in dialogo costante con il sistema dell’arte. Per esempio, il progetto La biblioteca fantastica è diventato una mostra che ha avuto luogo l’estate scorsa al MAN, museo d’arte della provincia di Nuoro, e i film sono stati proiettati a Londra da Almanac. Il disco realizzato durante il primo concerto di Chadal è stato esposto alla fondazione Querini-Stampalia durante la Biennale di Venezia del 2011, come parte del mio progetto per il Premio Furla; ma il progetto è stato anche presentato in una mostra al Bethanien di Berlino, alla Maison Rouge di Parigi, ad Artissima Lido a Torino, alla GAM di Milano, ed in una mostra a Palazzo Ducale a Genova.

    Avete nuovi progetti adesso?

    Stiamo collaborando a diversi progetti con associazioni no profit che come noi cercano di sostenere lo sviluppo del territorio attraverso l’arte contemporanea. In Europa e nel Mediterraneo negli ultimi anni c’è stata una grande fioritura di associazioni d’arte e di collettivi di artisti di tutte le discipline. È un panorama frammentato, fragile e solo in parte conosciuto. L’intenzione è quella di collaborare attivamente con queste realtà, attivando uno scambio che possa rafforzare questo circuito e metterlo in contatto con le istituzioni consolidate dell’arte.

    A parte l’impegno con Cherimus, a cosa ti stai dedicando in questo periodo?

    Ho appena concluso un progetto con le scuole a Empoli, dove abbiamo realizzato due nuovissime vele del Bounty. Sto preparando diversi workshop che avranno luogo a Mondovì, a Genova, a Nizza, legati ad istituzioni e a progetti indipendenti; poi ci sono alcune mostre. Spero soprattutto che il progetto del Bounty possa continuare e, chissà, arrivare a destinazione…

    E per il tuo walking talking studio visit cosa hai in mente?

    Dipende un po’ dal tempo che farà… Non aggiungo dettagli, mi piace che resti una sorpresa!

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